«Su che base decidiamo chi può definirsi “viaggiatore” e chi semplice “turista”? Quali sono i requisiti?»
Da una parte ci sono LORO, i turisti in bermuda che affollano i luoghi turistici e non si sanno comportare, e dall'altra ci siamo NOI, viaggiatori consapevoli, che ci approcciamo con rispetto e umiltà alla scoperta del mondo.
Su Instagram ci sono migliaia (milioni?) di Millennial che danno consigli di viaggio e condividono le loro esperienze, eppure nessuno di loro ammetterebbe mai di essere un “turista”.
Ho meditato a lungo sull’opportunità di condividere questo articolo, perché ragionare su questo tema richiede una buona dose di autocritica. Vorrei poter dire “esclusi i presenti”, ma la verità è che questa cosa riguarda tutti.
Riguarda anche me.
C’erano una volta le vacanze
Vacantia, dal verbo latino vacare: essere vuoto, libero. Le vacanze erano questo: ci si prendeva una pausa dal lavoro, si andava in un posto piacevole (magari dove si era già stati l’anno precedente) e il ritmo rallentava. Si tornava in ufficio riposati, abbronzati e con qualche chilo di troppo.
Ora non è più così. Il racconto di una vacanza come quella descritta qui sopra al giorno d’oggi verrebbe accolto con un’occhiata di sufficienza. Il cambiamento è evidente anche a livello semantico: non si va più “in vacanza”. Si va “in viaggio”, proprio come descritto nei blog. Infatti di vacante non c’è più nemmeno un minuto. La comica Giorgia Fumo lo riassume in una battuta folgorante:
Avete fatto Thailandia Cambogia Vietnam Laos…in 5 giorni? Ma che era ‘na deportazione?! Chi ve li fa ‘sti tour, i bersaglieri?
Il rientro in ufficio è un’esplosione di racconti. Alla macchinetta del caffè la domanda “e tu, dove sei stata?” mi mette un po’ in ansia.
Scherzi a parte, collezionare esperienze di viaggio regala l’illusione di “studiare” il mondo in modo piacevole, divertente, più e meglio di chi ha passato anni sui libri. Inoltre, è un'esperienza gratificante, perché dimostra al viaggiatore di sapersela cavare, anche con mezzi limitati e scarsa preparazione. La sfida più entusiasmante, poi, consiste nell’evitare le destinazioni più inflazionate, prese d’assalto da orde di turisti, e andare alla ricerca di luoghi autentici.
I luoghi autentici
Gli algoritmi di Instagram mi stanno sottoponendo un sacco di video su Socotra. Non credo di essere l’unica, evidentemente succede a molti. Qualche anno fa era il turno dell’Albania. Cos’hanno in comune queste due mete? Spiagge da sogno e il fatto di essere “luoghi autentici”, risparmiati dal turismo di massa. L’Albania nei primi sei mesi del 2023 ha accolto 3,4 milioni di turisti, mentre i residenti sono 2,8 milioni. Il tempismo e i numeri dimostrano che è evidentemente un tipo di turismo generato dai social e dalla ricerca di questa non ben definita “autenticità”.
I luoghi risparmiati dal turismo di massa non sono necessariamente migliori: non credo sia un tabù dire che Santorini è più bella della costa albanese, o che Venezia è più bella di Tirana. Ma evidentemente il punto non è più cosa si va a vedere ma chi e come lo va vedere.
“Doctor Livingstone, I presume” disse l'esploratore Henry Morton Stanley in Tanzania nel 1871 al ritrovamento del collega disperso. C’è nell’animo dei moderni viaggiatori il desiderio di andare alla scoperta di perle nascoste, di essere i primi. È per questo che il turismo di massa viene percepito come una scocciatura, non tanto per i danni ambientali o i disagi che questo provoca nei locali (o meglio, non solo per questo) quanto per il fatto di rovinare un’esperienza che altrimenti sarebbe stata perfetta. A tutti noi è capitato di fantasticare su una spiaggia tropicale, su antiche rovine, su una ventosa scogliera a strapiombo sull’oceano e di essere rimasti tremendamente delusi all’arrivo. Ed è vero, è sgradevole, perché nell’attesa avevamo immaginato uno scenario spirituale, quasi mistico, e invece abbiamo trovato un gran vociare, maleducazione, affollamento.
Però la questione si pone, e non è affatto trascurabile: siamo anche noi parte della tanto vituperata massa. Siamo giunti lì perché ci siamo fatti ispirare, esattamente come gli altri, dagli stessi blog di viaggio e come loro condivideremo contenuti che a loro volta innescheranno un desiderio di emulazione. Se così non fosse, cosa ci distingue? Su che base decidiamo chi può definirsi “viaggiatore” e chi semplice “turista”? Quali sono i requisiti?
Se non si sa, vedendo, non s’impara
Qualche mese fa mi sono imbattuta in questa poesia di Guido Oldani:
tra vacanze sempre più noiose,
Se non si sa, vedendo, non s'impara.
E tanto Kant, non l'ultimo arrivato,
che Salgari, furono stanziali
e il pittore Morandi uguale a loro.
Invece il viaggiatore giramondo
degli aneddoti sa, neppure rari.
E chi resta, sta in pace con un libro
e non molesta monti cieli e mari.
La verità è che spesso, nella foga di consumare un viaggio dopo l’altro e di condividere ancor prima di aver capito, il tipico viaggiatore social si accontenta di contenuti superficiali e… un po’ stereotipati. “L’India è il paese delle caste”, poco importa che abbia vissuto cambiamenti enormi (seppur controversi) negli ultimi decenni. “In Giappone il rispetto per gli altri è sacro” pazienza che razzismo e maschilismo siano a livelli stellari. Se diciamo che viaggiare non è da tutti, allora possiamo fare di meglio.
Preparando il mio viaggio in Uzbekistan, ho dato un’occhiata a qualche video su YouTube e mi sono imbattuta nel viaggio di due travel blogger, i quali hanno continuato a dire “Tamlerano” invece che “Tamerlano” per tutto il tempo. Sbagliare il nome dell’eroe nazionale è veramente da principianti, eppure questi influencer si sentivano in diritto di spiegare agli altri cosa vedere e come.
Il viaggiatore giramondo degli aneddoti sa, neppure rari, scrive Oldani, e come potrebbe essere altrimenti, senza una preparazione specifica? La maggior parte dei Millennial pensa che rivolgersi a un’agenzia di viaggi sia una cosa “da anzianotti” o da persone imbranate. Se da un lato è vero che la soluzione più comoda non è quasi mai la migliore, e che per la parte organizzativa oggi ci sono molti strumenti che consentono di fare da soli (Airbnb, Booking, Skyscanner e simili), dall’altro le agenzie possono ancora vantare una certa professionalità per la parte culturale e storica. Non sempre le guide trovate in loco si dimostrano all’altezza. Ad esempio, nel 2019 sono stata in Messico e per visitare il sito archeologico di Chichén Itzá ho ingaggiato una guida certificata, all’ingresso. Era di origine Maya, ho pensato che fosse bello che fosse lei a parlare della sua cultura. Sono sincera, l’esperienza è stata molto deludente. Oltre a non parlare bene l’inglese, la guida sembrava più intenta a mostrarci dei punti strategici per fare delle belle foto che a spiegarci la storia del luogo e gli elementi architettonici. Probabilmente questo era quello che le veniva richiesto dalla maggior parte dei visitatori, ma io avevo messo le cose in chiaro sin da subito e non mi pareva di aver chiesto la luna. Per contro, nel viaggio in Uzbekistan, un amico che lavora da molti anni come tour operator ci ha consigliato una guida locale a cui si affida stabilmente per i suoi viaggi e la differenza è stata palese: ex professore universitario, Nurik ci ha spiegato un sacco di cose sulla storia del paese e sulla cultura islamica che io, con tutto lo studio e l’impegno del mondo, mai sarei riuscita a capire. Se non si sa, vedendo, non s'impara.
Una patina di spiritualità
Il cantautore italiano Gio Evan nel brano “Viaggiate” riassume perfettamente cosa cerca il viaggiatore moderno. A ben pensare, l’intero universo dei blog di viaggio si basa sull’assunto che viaggiare è importante per uscire dalla propria zona di comfort, per conoscere altre culture, accettare il diverso, superare i propri limiti e, sentendosi piccoli di fronte alla vastità del mondo, diventare più umili.
Viaggiate che sennò poi diventate razzisti
E finite per credere
Che la vostra pelle sia l'unica ad aver ragione
Che la vostra lingua è la più romantica
E che siete stati i primi ad essere i primi
Viaggiate che se non viaggiate
Poi non vi si fortificano i pensieri
Non vi riempite di idee
Vi nascono i sogni con le gambe fragili
E poi finite per credere alle televisioni
E a quelli che inventano nemici
Che calzano a pennello con i vostri incubi
Per farvi vivere di terrore, senza più saluti
Né grazie, né prego, né si figuri [...]
Questo testo è un’opera d’arte. Ma… è davvero così?
È sufficiente viaggiare per diventare tolleranti e consapevoli del mondo? Davvero chi fa tanti viaggi poi ne parla con umiltà? Io non sono sicura che questa narrazione stia in piedi.
Purtroppo, una volta conclusa la piccola parentesi in cui si parla di viaggi, l’atteggiamento della gente verso lo straniero è ben diverso e la deriva xenofoba dell’Europa ne è la prova. Mi vengono in mente gli slogan “andrà tutto bene” e “ne usciremo migliori” sbandierati durante la pandemia. Sono rimasti tali, belle parole. Per il testo di Gio Evan vale lo stesso. Sempre più persone viaggiano e sempre meno vorrebbero uno straniero come vicino di casa.
Dormire in una tenda nel deserto per una settimana e pensare che sia un’esperienza pazzesca non significa davvero mettersi nei panni di chi in quella tenda ci dovrà rimanere per sempre. In altre parole, non darei al viaggio poteri pedagogici e taumaturgici che non ha.
Tra performance ed eccessi
Una volta ho sentito una ragazza dire che “in Sardegna ci vanno quelli che non sanno viaggiare“. Viaggiare diventa sostanzialmente una performance, qualcosa che devi saper fare. Questa dimensione sta diventando più importante non solo di quella del piacere, ma anche della sicurezza. Molti viaggiatori avventurosi rischiano di mettersi in pericolo con comportamenti sconsiderati, ignorando le raccomandazioni della Farnesina o dei tour operator più esperti, arrivando a bollarle come fake news. È il tentativo di distinguersi di cui parlavo prima.
Anche i giornalisti del Post si sono accorti delle numerose sponsorizzazioni relative a Socotra, infatti hanno scritto l’articolo Visitare un «paradiso terrestre» nello Yemen non è per nulla una buona idea. Consiglio di leggere i commenti all'articolo (o al relativo post sulla pagina Instagram). Il fatto che l’isola di Socotra sia risparmiata dal turismo di massa dipende da un dettaglio non irrilevante: nello Yemen è in corso una guerra civile dal 2014. Il desiderio di libertà dei Millennial occidentali non è la priorità degli yemeniti, al momento. Eppure questa, che a me sembra un’ovvietà, ha sollevato ondate di indignazione.
Un bisogno identitario
Sempre più Millennial concepiscono il viaggio come una componente fondamentale della loro vita, un elemento identitario. Si sentono viaggiatori nell’anima, anche se nella vita fanno tutt’altro. Questo bisogno di andare alla scoperta di culture lontane e diverse viene raccontato sui social, croce e delizia della nostra generazione, in cui il confine tra espressione di sé e autofiction si fa molto labile. Incontrerai tante maschere e pochi volti, scrisse Pirandello.
Il profilo Instagram funge da posizionamento sociale, chiede all’utente di compilare il piccolo spazio della bio per rispondere alla domanda “chi sei?” Chi ama leggere ne parla come se non facesse altro tutto il tempo (Oui, c'est moi!), chi ama lo sport condivide ogni allenamento, chi ama viaggiare si sente se stesso solo se altrove.
È difficile parlare di argomenti che toccano così nel profondo l’identità delle persone, e farlo con delicatezza e tatto. Il mondo occidentale contemporaneo ha fatto dell'identità il suo pilastro portante. Non è sempre stato così, già i nostri nonni non sentivano la necessità di rispondere alla domanda “chi sei?”. A rispondere per loro c’erano la classe sociale, la famiglia, le convenzioni. Era un mondo dove la dimensione collettiva era più importante di quella individuale. Non è questa la sede per discutere delle cause di questo slittamento (o delle conseguenze, che comunque sono enormi e ci toccano più di quanto pensiamo). Forse un giorno mi deciderò e proverò a farlo. In questo momento mi limito a dire che no, non sono stati i social network a cambiare la società; al contrario, è la società che, evolvendosi, ha posto le basi per la creazione di nuovi strumenti e di nuovi linguaggi. È proprio su questi ultimi che voglio concentrarmi.
Travel addict, Wanderlust, Globetrotter. Foto fintamente rubate in cui si scruta l’orizzonte. E poi, ovviamente, le storie in evidenza, la misura ultima della “figaggine”. Sia chiaro, non c'è niente di male. Le foto rubate e i riferimenti ai luoghi autentici fanno capolino anche nel mio profilo e non ho nessuna intenzione di cancellarli. Non mi sfugge il fatto che in tutto ciò c’è una componente di gioco, per cui non si mette in campo la vita vera, ma una versione instagrammabile e si prende parte, ciascuno come può, a un gioco di ruolo con le sue regole e i suoi stilemi. E per fortuna che è così!
Ho scritto nella premessa che questa situazione riguarda tutti e infatti riguarda anche me.
Sono passata da un estremo all’altro: dalla telecronaca su Instagram al massimo riserbo. Lo scorso Natale sono stata a Hong Kong e non l’ho detto praticamente a nessuno. Non ho dovuto dare spiegazioni alla macchinetta del caffè, ma non mi sono sentita meno patetica.
Mi rendo conto di essere diventata insofferente nel vedere centinaia di persone in coda per sfruttare le Instagram opportunities, magari ignorando posti ben più significativi. Perplessa di fronte a chi, di ritorno da un viaggio pazzesco, ha portato a casa solo elementi di cultura pop. Intollerante vedendo i turisti nei musei accalcarsi di fronte a un’opera d’arte per i pochi secondi necessari a scattare una foto, senza capire che per averla sullo schermo del telefono, bastava restare a casa e guardare le foto dei professionisti.
Nemmeno io quindi posso definirmi immune dal rischio di salire sul piedistallo della viaggiatrice saggia e illuminata, che guarda gli altri dall'alto in basso.
Come ne usciamo?
La verità è che non lo so. Credo che buona parte del problema consista nel desiderio di emulazione, quella componente ludica che ci porta a voler fare esperienze simili a quelle che vediamo nei profili di amici e blogger per sentirci “parte di qualcosa”. Tuttavia non me la sento di dire che dovremmo lasciar perdere i social e fare le vacanze solo a Jesolo. Il desiderio di viaggiare ci rappresenta, come generazione, e anche la voglia di condividere. Forse dovremmo prenderci un po’ meno sul serio. Allenare lo spirito (auto)critico. Ammettere che anche noi (tutti noi) siamo dei semplici turisti, disinnescando la tentazione di sentirci migliori degli altri. Fantasticare sulle parole di Gio Evan ma senza crederci fino in fondo. Non basare l’opinione che abbiamo delle persone sul numero di viaggi che hanno fatto, o almeno non solo su quello. Fare qualche viaggio in meno e gustarcelo di più, senza pensare già a quello successivo, in modo quasi consumistico.
Correre il rischio di essere banali, ma in questo modo (noi sì) più autentici.
Per approfondire
Libri:
- “Il selfie del mondo. Indagine sull'età del turismo da Mark Twain al Covid-19” di Marco D’Eramo, 2022, Feltrinelli.- “Etica del turismo. Responsabilità, sostenibilità, equità” di Corrado Del Bò, 2017, Carocci.
Podcast (singole puntate):
- Il turismo ha cambiato le città, di Eugenio Cau, in Globo, Il Post.- Il turismo fa veramente così schifo?, di Matteo Bordone, in Tienimi Bordone, Il Post.
- Overtourism o turismofobia?, di Marino Sinibaldi, in Timbuctu, Il Post.
- Due secoli di Operette Morali, di Elena Stancanelli, in Pagina 3, Rai Radio 3.
Mostre:
- Grand Tourismo di Giacomo Zaganelli, Uffizi, 2018-2019.Articoli:
- Teoria e storia del “Selfismo” di Giacomo Papi, in “Sotto il Vulcano”, rivista trimestrale. N. 5, ottobre-dicembre 2022, Feltrinelli.- “Siamo tutte influencer di viaggi” di Paige McClanahan, in “Internazionale”, N. 1574, agosto 2024.
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