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DI WOKE, DOMANDE INOPPORTUNE E SENSO DELLA REALTÀ

 

«Liquidare la questione pensando che gli altri siano sempre pronti a puntare il dito e giudicare con morboso compiacimento i nostri fallimenti, sarà anche consolatorio, ma... è falso»                                                                                                                                                                                                                                                                                

Siamo reduci dal pranzo di Natale in famiglia: se vi siete sentiti offesi per una domanda inopportuna come “ma insomma, quando ti laurei?” o vi siete beccati un pippone sull'ideologia woke dallo zio sovranista, questo pezzo fa per voi.

Con il termine "woke" si intende l’atteggiamento di chi presta particolare attenzione alle discriminazioni sociali, di genere e razziste, evitando di minimizzare e cercando di usare un linguaggio rispettoso e inclusivo. Il problema è che questa attenzione, nata con i migliori propositi, rischia di trasformarsi in una sorta di controcultura neo-discriminatoria, altrettanto intollerante, che censura le parole e non ammette controbattute. 

La cultura woke interpreta la realtà in categorie molto rigide ("i neri", "le donne", "gli omosessuali"...) e nel tentativo di restituire pari diritti e dignità alle categorie finora discriminate, azzera tutte le differenze e cancella ogni sfumatura individuale. In altre parole, se diciamo che gran parte dei danni in questo mondo siano stati fatti da maschi bianchi e ricchi non stiamo dicendo una falsità, basta aprire i libri di storia. Ma se pensiamo che i maschi bianchi e ricchi, in quanto tali, abbiano già fatto e detto abbastanza e che ora debbano tacere a prescindere dalle loro idee e azioni, stiamo perpetrando una discriminazione uguale e contraria. 

Qual è il rischio principale? Quello di perdere di credibilità e di alimentare il vittimismo di chi si sente colpito dal "razzismo al contrario" e dalla "cancel culture". Non esiste nessun "razzismo al contrario", ovviamente. Viviamo in un paese dove si può dire (e si dice) di tutto. Si può dare dell'orango a una ministra della repubblica, come ha fatto il senatore Calderoli, senza subire alcuna conseguenza politica. Si possono scrivere parolacce come quelle di Vannacci e nessuno ne impedirà la pubblicazione.  
Se quindi è esagerato parlare di "razzismo al contrario", non si può negare che il rischio di scivolare verso l'intolleranza sia reale. Scrive Michele Serra nella sua newsletter:

L’aumento della diffidenza, la diminuzione della tolleranza, il rischio di organizzare anatemi e nuove censure come falso rimedio a quelli vecchi, beh, non è qualcosa che avviene dentro una disputa formale. È qualcosa che separa vite, rompe rapporti, indirizza energie e ne mortifica altre, “sgrida” chi imbocca strade giudicate non abbastanza conformi alle nuove sensibilità e – direbbe Guia Soncini – alle nuove suscettibilità.

Sgridare chi imbocca strade non abbastanza conformi alle nuove sensibilità e nuove suscettibilità. Questo mi sembra un punto interessante. Il woke, nella sua accezione peggiore, è questo. Criticare, con aria scandalizzata, qualsiasi deviazione dalle nuove sensibilità, al punto che non si parla più di discriminazioni reali, storiche, ma anche di discriminazioni... potenziali.

Su Instagram circolano migliaia di contenuti che sembrano dar ragione ai vecchi tromboni del “non si può più dire niente”. Che in questo social abiti una mentalità simil-woke non mi stupisce. Sia il woke che la cosiddetta "Instagram culture" sono prodotti della mia generazione, quella dei Millennial. In entrambi i casi non c'è un "giusto" e uno "sbagliato", è sempre questione di sfumature: ricordare alle persone che non si può dare del "ne*ro" o del "fro*ioa qualcuno è sacrosanto. Indignarsi con la stessa veemenza se qualcuno ti chiede "hai intenzione di metter su famiglia?" è ridicolo. Eppure, per fare un esempio, pare che tra le persone della mia generazione, chiedere a una donna se abbia figli o voglia averne, sia disdicevole. Tra i numerosi esempi che potrei fare ne scelgo uno dal profilo Instagram di Carlotta Perego (in arte Cucina Botanica) content creator da 1.2 milioni di follower che sui social network e in televisione parla di cucina vegana. In questo post del 5 settembre 2023 Carlotta fa un collage di alcuni commenti ricevuti, che le chiedono se abbia il desiderio o l’intenzione di diventare mamma, e risponde così:



In realtà è molto semplice: voi non potete sapere tutto della mia vita. Né della vita di nessuno. Anche se ogni giorno qui vi racconto molto del mio privato, non potete sapere, ad esempio, se io piango tutte le notti alla ricerca di un figlio che non arriva da anni. Non potete sapere se semplicemente non li desidero perché non mi ci vedo ad essere mamma (e se fosse così, non siate giudicanti, perché si parla della vita di qualcun altro e non della vostra! Ognuno è liberissimo di fare ciò che crede del tempo che ha a disposizione su questa terra). Non potete sapere se io e Simone discutiamo ogni giorno perché uno di noi vuole un figlio e l’altro no. Non potete sapere se c’è stata una gravidanza andata male. Non potete sapere se per qualche condizione di salute non potrò avere figli, né, in tal caso, come vivo questa notizia. Fino a qualche tempo fa era normalissimo sentire domande di questo tipo, me ne rendo conto, ma per fortuna la sensibilità su questi temi è molto aumentata. Fondamentalmente, facendo queste domande si potrebbe ferire molto profondamente qualcuno. Non è il mio caso, ma potrebbe essere il caso della prossima persona a cui chiederete “allora, quando arriva un bel bambino?”. Quindi, dato che in questa vita ci sono milioni di argomenti meravigliosi di cui parlare, scegliamone un altro che faccia stare tutti a proprio agio”.

Premetto che faccio veramente tanta fatica a capire perché qualcuno senta il bisogno di fare delle domande a una perfetta sconosciuta sui social, o perché una persona che campa sull’attenzione delle persone su di sé, debba poi lamentarsi se riceve domande private.

Al di là di questo, quello che mi preoccupa è che questo modo di pensare sia diventato mainstream per le ragazze della mia generazione (sotto il post di Carlotta ci sono letteralmente migliaia di commenti entusiasti). Se il mondo occidentale è colpito da una misteriosa epidemia di sterilità, per cui qualsiasi donna a cui viene chiesto “allora, quando arriva un bel bambino?” sta affrontando un inesplicabile dramma interiore, vi prego, parliamone! Facciamo qualcosa! 
La mia è chiaramente una provocazione. Però non mi va giù l’idea che le donne, proprio in un momento storico in cui rivendicano il diritto alla scelta sui loro corpi e sulla loro vita, non siano in grado di argomentare (non dico con degli sconosciuti su Instagram, per carità), ma nemmeno con le loro amiche e i loro familiari, quelle che altro non sono che scelte

Tra le varie possibilità che cita Carlotta Perego, manca quella più probabile, perlomeno in termini meramente statistici: che nel momento in cui il lavoro iniziava a darle soddisfazione, avere figli non fosse la priorità. E questa è probabilmente la condizione della maggioranza delle sue coetanee. Sia chiaro, non vivo su Marte, so benissimo che mettere su famiglia richiede grandi sacrifici, che ricadono soprattutto sulle donne. Mancano gli asili, il congedo di paternità è ridicolo, i nonni rivendicano per la prima volta nella storia il diritto ai loro spazi e a godersi la pensione (che tempismo!) le scuole fanno schifo. Potrei andare avanti: i motivi per cui arrabbiarsi sono tantissimi. In un'epoca di incertezza, molte giovani donne fanno la scelta di approfittare di un minimo di stabilità economica per fare qualche viaggio, costruirsi una carriera, uscire con le amiche. Non è la scelta più altruista del mondo (soprattutto agli occhi delle generazioni precedenti) né la più lungimirante (la fertilità non dura per sempre). Ma è pur sempre una scelta e come tale bisogna affrontarne le conseguenze con maturità, senza bisogno di nascondersi dietro inutili vittimismi.

Quello del vittimismo è un giochetto meschino, che nuoce soprattutto a chi lo pratica e purtroppo è potenzialmente applicabile a qualsiasi domanda. Ecco un altro video, di una content creator, Gloria Maria Corso, la quale trova scandaloso che i suoi familiari a Natale le facciano domande assolutamente inopportune, come ad esempio: "quando ti laurei?"



Io, laureata alla triennale dopo 9 anni. Il periodo delle feste è il più tragico. Tutti ci tengono a chiederti “ma quando ti laurei?” Pare che non combatti ogni giorno con te stesso, perché ti senti un fallito, non ti senti in tempo, fai il confronto con gli altri… si è laureato pure quello che dice “se io avrei”! Sembra che tutti abbiano perfettamente idea di quello che stanno facendo, abbiano trovato la loro strada e tu non hai ancora capito chi sei, se preferisci il dolce o il salato, se ti piace quello che studi o hai scelto una facoltà soltanto perché “bisogna scegliere una facoltà”. (Sei iscritto a economia ve’? Giurisprudenza!) E la crisi silenziosa che stai affrontando probabilmente qualcuno l’ha già affrontata e qualcun altro la attraverserà più tardi. “Quando ti laurei?” “Ma sai che non lo so?” Non devi permettere a nessuno di farti sentire sbagliato! E adesso che mi sono laureata ti è cambiato un ca**o o no?!

Va da sé, non tutte le domande sono uguali, alcune possono essere più indisponenti di altre. Ma nemmeno le persone che le pongono o il sentimento che le anima sono uguali. La totale mancanza di empatia che viene denunciata da post come quelli di Carlotta Perego o Gloria Maria Corso è reciproca e speculare: come si fa a non capire che anche gli amici e i genitori possano soffrire nel vederci impantanati? Liquidare la questione pensando che gli altri siano sempre pronti a puntare il dito e giudicare con morboso compiacimento i nostri fallimenti, sarà anche consolatorio, ma... è falso. 

Allo stesso modo mi colpisce la naturalezza disarmante con cui parlano le donne nel documentario "L'amore in Italia" di Luigi Comencini, del 1978. L'Italia di allora era molto diversa, le discriminazioni erano reali, erano sotto gli occhi di tutti. Secondo il ragionamento di Carlotta Perego questo documentario non doveva essere nemmeno girato, perché facendo queste domande si potrebbe ferire molto profondamente qualcuno. Capite bene, qui la ferita non è potenziale. È reale. E le persone discriminate vogliono parlare, altroché se vogliono parlare! 



Quello che intravedo in contenuti come quelli che ho riportato non è un invito alla sensibilità. È un tentativo di nascondere la testa sotto la sabbia, fingere che i problemi non esistano (spoiler : esistono, per tutti). Un proverbio cinese dice: “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”. Ecco, prendersela con chi fa le domande e non sul problema mi sembra un po' come criticare il dito. 

Il mio amico Daniele ha collegato questa deriva woke all'individualismo che caratterizza la società occidentale contemporanea. I nostri problemi personali ci interessano e ci coinvolgono molto di più di quelli degli altri, e questo individualismo ci ha portato a mettere sullo stesso piano le più lampanti discriminazioni razziali e le più banali esperienze di vita. Questo distaccamento dalla realtà è esattamente il punto su cui si è incrinata l'ideologia woke, che, occorre ripeterlo, era nata con le intenzioni più nobili.

A proposito di nuove suscettibilità e di distacco dalla realtà, c'è un filone che riguarda la letteratura e il teatro, che reputo particolarmente preoccupante. 
Uno dei primi libri che ho memoria di aver letto è "Le Streghe" di Roald Dahl e ricordo che mi era piaciuto molto. Recentemente l'editore Puffin ha deciso di far tradurre nuovamente i romanzi di Dahl, rimuovendo alcune espressioni giudicate offensive o aggiungendo alcune precisazioni. Ad esempio, nel paragrafo che spiega che le streghe indossano delle parrucche, perché in realtà sono calve, è stata aggiunta questa frase: Ci sono molte altre ragioni per cui le donne potrebbero indossare parrucche e non c'è certamente nulla di sbagliato in questo.

Il celebre teatro Globe di Londra ha deciso di inserire dei trigger warning, cioè avvisi che segnalano la presenza di contenuti che potrebbero turbare alcuni utenti. Ad esempio, gli spettatori sono avvisati in anticipo che in "Romeo e Giulietta" assisteranno a suicidi e uso di droga. Riguardo al film "Wicked", il British Board of Film Classification ha inserito questo avvertimento: vedere personaggi amati maltrattati, soprattutto quando il colore della pelle di Elphaba (cioè verde, n.d.r.) viene usato per demonizzarla come la "strega malvagia", può essere sconvolgente e toccante per alcuni spettatori.

Il comico Tim Minchin, in merito alla riscrittura dei libri di Roald Dahl, ha commentato: 
Chi decide cosa è offensivo o va contro il pensiero attuale? Ora dovremo togliere tutti gli stupri da tutti i libri di storia. Allora sì che il mondo sarebbe un posto migliore! 

Infine, da questo articolo di Martina Barone per Vanity Fair, scopriamo che non va più bene nemmeno "Una poltrona per due": è il caso di proiettare una commedia così controversa? si chiede l'autrice. 
Luca Bizzarri risponde così: i film spesso non parlano del mondo ideale, ma raccontano l'esistente. E come si fa per esempio a raccontare la misoginia senza rappresentarla? Come si fa a descrivere due riccastri stronzi e razzisti, senza descrivere due riccastri stronzi e razzisti?

Il punto qui è sempre lo stesso. Fare domande scomode, rappresentare scene di razzismo, di classismo, di bullismo, sono tutte cose che mettono a disagio e, forse sì, evitandole potremmo stare meglio. Però sarebbe un sollievo solo momentaneo, perché la realtà resta (gli anni fuori corso si accumulano, la fertilità diminuisce...) che se ne parli oppure no. Conoscere le difficoltà della vita, imparando a digerirle sin da piccoli, anche attraverso un libro di fantasia o affrontando l'interrogatorio dei parenti al pranzo di Natale, può essere davvero pesante, ma ne vale la pena, perché permette di fare scelte più consapevoli. E... no, non è vero che "non dobbiamo permettere a nessuno di farci sentire sbagliati", ogni tanto dobbiamo aprire uno spiraglio alla critica, perché è solo mettendosi in discussione che si cresce e si migliora. Il direttore del Post Luca Sofri ha fatto una bella riflessione sul fatto di "non accettare lezioni da nessuno": ecco il link.

Per concludere, l'attrice Tracy-Ann Oberman in un'intervista al Times ha riassunto bene quello che penso di questa "censura preventiva": 

Ce l'ho davvero a morte con i trigger warning... Se qualcosa ti ha turbato in un'opera teatrale, vai a cercarla, vai a scoprire quando e perché è stata scritta, perché è lì. Dovresti provare emozioni che ti fanno sentire a disagio, ma nell'ambiente sicuro del teatro. Dovresti provare paura, pietà, rabbia, turbamento, orrore, indignazione... E dovrebbe essere in grado di cambiarti.


Per approfondire:

Podcast (singole puntate):
Pessimismo, speranze, amore e il nonno di Calenda, di Matteo Bordone, in Tienimi Bordone, Il Post.
Le donne dalla pelle verde, Ep. 534, di Luca Bizzarri, in Non hanno un amico, Chora Media.
Una poltrona per due, Ep. 543, di Luca Bizzarri, in Non hanno un amico, Chora Media.

Newsletter: 
Le fave se ne fregano, di Michele Serra, in Ok Boomer!, Il Post.
I panni degli altri, stesi, di Michele Serra, in Ok Boomer!, Il Post.

Articoli:
Roald Dahl books rewritten to remove language deemed offensive, di Hayden Vernon, The Guardian.


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