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LA PSICOTERAPIA È DAVVERO PER TUTTI? Alcune riflessioni sul tema della salute mentale



«Anche se decidiamo di dare pari importanza alle ansie, alle insicurezze e alle malinconie di persone sane a livello psichiatrico, le malattie mentali non smettono di esistere»                                                                                                                                                                                                                                                                              

Fino a qualche anno fa non si parlava molto di salute mentale e psicoterapia. Si parlava di lapsus freudiani, di scelte influenzate da desideri inconsci; si giocava a psicanalizzare le amiche. Però l’idea di avere davvero bisogno di un professionista non esisteva. Cosa è cambiato? Due cose, principalmente: che i giovani si sentono più infelici e fragili che mai e che i social media influenzano tantissimo i rapporti tra le persone. Le due cose, dicono gli esperti, sarebbero collegate. E allora non solo lo psicoterapeuta viene interpellato quando viene diagnosticato un episodio clinico ma addirittura in modo preventivo, anche quando si sta bene. È giusto? È una moda? Parliamone.

Il potere delle bolle

Talvolta succede che alcune persone molto simili tra loro condividano delle opinioni e che le ripetano così tante volte da crederle indiscutibilmente vere, monolitiche, dimenticando che al di fuori della loro cerchia quelle stesse cose possono avere interpretazioni diverse e talvolta diversi coefficienti di attinenza alla realtà. Mettere in discussione queste idee significa infilarsi in un ginepraio: le persone si sentono messe in discussione nell'intimo della loro identità e questo le porta a chiudersi e mettersi sulla difensiva. Non il modo migliore per instaurare un dibattito costruttivo.

Cosa c’entra questa digressione sulle “bolle” con la terapia? Stavo parlando con un’amica che aveva sofferto molto per la fine di una relazione, che l’aveva a suo dire, lasciata svuotata e insicura. Mi ha raccontato di aver intrapreso un percorso psicologico per rimettere insieme i cocci della sua vita. “Addirittura in terapia?” le ho chiesto, per sdrammatizzare. Davanti a me avevo una ragazza molto bella, giovane, indipendente, con un buon lavoro… tutt'altro che un coccio da buttare, insomma. La scelta di farsi aiutare da un professionista mi era sembrata, onestamente, un po' esagerata, soprattutto conoscendo la sua situazione. Lei a quel punto si è irrigidita, dicendomi, scocciata, che purtroppo "c’è ancora molta diffidenza nei confronti di chi frequenta uno psicologo o uno psicoterapeuta". Uno stigma, l’ha definito.

Mi ero infilata nel ginepraio di cui sopra. Potere delle bolle.

La retorica dominante

Chiara Ferragni, Bella Hadid e Sangiovanni sono solo alcuni dei personaggi pubblici che hanno parlato apertamente del regolare ricorso alla psicoterapia come strumento per conoscersi meglio e recuperare un equilibrio mentale ed emotivo. Se ti fanno male i denti, vai dal dentista; se hai un problema agli occhi, vai dall'oculista; se hai problemi di salute mentale, vai dallo psicologo. Andare in terapia diventa una pratica quotidiana e “di prevenzione”: come andare in palestra o fare l’igiene dentale. Dentro la bolla dei social ormai questa particolare interpretazione è diventata la retorica dominante. Mi è venuto addirittura il sospetto che millantare traumi e fragilità sia diventata quasi una moda. Ascoltando i testi delle canzoni di questi anni sembra che non si parli d’altro. Tuttavia, preferisco pensare che questo sia fatto in buona fede e non per mancanza di argomenti, o peggio, perché il tema “vende”. Questo sì sarebbe davvero deprimente.

Il caso, mi sembra, più trattato è quello della difficoltà di gestire il senso di inadeguatezza dovuto al confronto con gli irraggiungibili standard estetici promossi sui social e la frustrazione di non sentirsi donne e madri perfette. Non c'è nulla di sbagliato nel cercare di sensibilizzare le persone su questo tema, però dobbiamo metterci d'accordo su due punti: cosa si intende per “salute mentale” e cosa vuol dire “stare male”, altrimenti rischiamo di banalizzare la questione e di superare il labile confine tra sensibilizzazione e marketing.

L’ingrato compito di definire le priorità

Matilda De Angelis ha raccontato le difficoltà che riscontra nel convivere con l'acne, utilizzando i social per sensibilizzare sulla normalità di questa sua caratteristica, ma anche per raccontare il disagio di essere un'attrice e dover “ogni giorno svegliarmi e presentarmi prima davanti allo specchio e poi davanti alla macchina da presa con tutto il carico emotivo che già comporta ed essere splendida”. Chiara Ferragni sul palco dell’Ariston ha dedicato una lettera alla se stessa bambina: “Voglio dirti che sei abbastanza e lo sei sempre stata. Tutte quelle volte che non ti sei sentita abbastanza bella o intelligente, lo eri. Ricapiterà altre volte, questo è uno di quei momenti. Le sfide più importanti sono con noi stessi”.

È chiaro che questa è solo una piccolissima parte dell’enorme tema della salute mentale e mi sentirei di dire (anche a costo di sembrare insensibile) la parte meno grave. Il compito di definire limiti e priorità è sempre molto ingrato, ma qualcuno lo deve fare, altrimenti si resta impantanati e non si capisce da che parte iniziare per provare a risolvere i problemi. Intendo dire che non si può e non si deve liquidare la questione con superficialità, ma nemmeno pretendere che il tema si esaurisca con le insicurezze adolescenziali di modelle e influencer.

La verità è che purtroppo, fuori da questa “meravigliosa bolla in cui tutti si prendono cura di sé attraverso la terapia”, il mondo è ingiusto e le risorse sono limitate. Le persone che hanno ricevuto una diagnosi psichiatrica hanno la priorità rispetto a quelle che non ce l'hanno oppure no? I dati parlano chiaro: ovviamente no.

Il “bonus psicologo” erogato dal Governo Italiano tiene conto della fascia ISEE ma non pone altri requisiti oltre all’ordine di ricevimento della domanda. Anche se decidiamo di dare pari importanza alle ansie, alle insicurezze e alle malinconie di persone sane a livello psichiatrico, le malattie mentali non smettono di esistere. Far passare il messaggio che la psicoterapia è una cosa “per tutti”, senza distinzioni tra chi, ad esempio, ha subito una violenza e chi “soffre per l’acne”, ottiene il risultato contrario: alimentare lo stigma di chi ne ha davvero bisogno. In effetti (e in questo la mia amica aveva ragione) le persone affette da disturbi mentali sono tuttora oggetto di stigma e come tali non sono rappresentate nel mondo patinato dei social: migranti traumatizzati, persone con dipendenze, detenuti. Sono stigmatizzati perché le loro fragilità non sono instagrammabili, non suscitano empatia e mettono in imbarazzo se stessi e gli altri. A ben pensarci, con il suo commento, anche la mia amica ha voluto prenderne le distanze, come a dire: non darmi della pazza, al giorno d’oggi la terapia va normalizzata; è diventata un modo per prendersi cura di sé.

Nell’articolo La psicoterapia non può durare per sempre Richard A. Friedman (professore di psichiatria clinica e direttore della clinica di psicofarmacologia del Weill Cornell Medical college di New York) scrive che:

La psicoterapia, per chi può permettersela, spesso diventa un impegno a lungo termine, come fare sport o andare dal dentista. Tante e tanti psicoterapeuti e i loro pazienti, insieme alle celebrità e ai mezzi d’informazione, hanno sposato l’idea che bisogna andare in terapia per molto tempo, pure quando si sta bene. Il problema è che non sempre le terapie sono pensate per durare così a lungo. Anche se ne esistono molte varianti, il loro obiettivo è lo stesso: non aver più bisogno delle sedute perché ci si sente in grado di proseguire da soli. Di contro, esistono motivi per credere che in assenza di sintomi acuti in alcuni casi la psicoterapia possa risultare dannosa. Un’attenzione eccessiva verso se stessi – facilitata da un contesto in cui si paga per parlare delle proprie emozioni – può far aumentare l’ansia, soprattutto se le sedute sostituiscono le azioni concrete.
[...] In ogni caso, andare in terapia è di per sé un privilegio. Non è quasi mai inclusa nell’assicurazione sanitaria, dunque buona parte delle persone che ne avrebbero bisogno non può permettersela. Per quanto riguarda la possibilità di interromperla quando si è pronti (magari liberando un posto per chi in quel momento ne ha più bisogno) riconosco che non è facile.

Se la terapia non è per tutti allora per chi è?

Nel 1979 lo psichiatra veneziano Franco Basaglia aprì le porte dei manicomi nell'unica città dove sarebbe stato possibile farlo: a Trieste, “città dei matti”, di Joyce, di Svevo. Crocevia di culture: italiana, certo, ma anche slovena, austriaca e croata. Basaglia lo fece spinto da un’intuizione straordinaria: che la follia fosse una delle forme in cui si esprime la “condizione umana” e che il problema fosse che la società, invece di accoglierla, preferisse incaricare una scienza (la psichiatria) di “tradurre la follia in malattia, allo scopo di far diventare razionale l'irrazionale”. La chiusura dei manicomi è, in questo senso, solo l'inizio di un percorso (rimasto incompiuto) per integrare i “folli” nella società, anziché nasconderli alla vista, internandoli.

È proprio a Trieste, snodo inevitabile della “rotta balcanica”, che ci porta la giornalista scientifica Federica Sgorbissa con l'articolo la psiche di chi arriva scritto per il Post. Lo fa per raccontare un progetto ambizioso e innovativo, quello degli psicologi di ICS (Consorzio Italiano di Solidarietà – Ufficio Rifugiati Onlus) che cercano di imbastire un nuovo modello di accoglienza, concepito appositamente per i migranti.

A Trieste migrazione e salute mentale non si incontrarono per la prima volta negli anni Novanta. Anche ai tempi di Basaglia (e prima ancora) molti degli internati del manicomio erano migranti. Allora si chiamavano esuli e arrivavano da Istria e Dalmazia per fuggire dal regime di Tito, nell’appena nata Jugoslavia. Ad accomunare i migranti di ieri e di oggi è spesso un carico di esperienze traumatiche, che nel paese di origine può causare la partenza e durante il viaggio contribuire al manifestarsi della malattia mentale.

Purtroppo il modello di Trieste resta un’eccezione. Sgorbissa scrive:

Uno psicologo sei ore alla settimana per cinquanta persone. Questo, secondo quanto indicato nel bando pubblico per i servizi di accoglienza, è il tempo che l’Italia attualmente offre alla salute mentale dei migranti: un minuto al giorno per ogni persona accolta.

L’atteggiamento delle istituzioni e della cittadinanza, non è un mistero, è molto ostile alle persone migranti e la direzione che sta prendendo l’Europa è quello di una sempre maggiore tendenza alla loro criminalizzazione e detenzione. E a proposito di detenzione, (l’altro grande accumulatore di disagio sono le carceri) ecco cosa si dice in un articolo del Post sulle condizioni a San Vittore:

In questo momento San Vittore è il carcere dove l’assistenza psicologica è più carente, ma anche nelle altre strutture italiane la tutela della salute mentale dei detenuti ha i suoi problemi e in alcuni casi è piuttosto scarsa. Secondo i dati diffusi da Antigone, nel 2022 nelle carceri italiane il 9,2 per cento dei detenuti aveva una diagnosi psichiatrica grave. Il 20 per cento dei detenuti assumeva stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi, e il 40,3 per cento sedativi o ipnotici. Le ore di servizio degli psichiatri erano in media 8,75 ogni 100 detenuti, quelle degli psicologi 18,5 ogni 100 detenuti. Solo 247 persone – 232 uomini e 15 donne – erano ospitate nelle ATSM (Articolazione per la tutela della salute mentale), sezioni del carcere pensate per accogliere pazienti con problemi psichici.

Il carcere diventa quindi un “surrogato” del manicomio, con buona pace di Basaglia, che aveva immaginato una società dove la follia venisse integrata, accettata, resa meno spaventosa. Non è andata così: la follia ha continuato a fare paura e a gravare quasi interamente sulle spalle delle famiglie, insieme alla vergogna e alla mancanza di risorse economiche e psicologiche. È in carcere che spesso, in un modo o in un altro, finiscono le persone con disturbi psichici gravi. Nel Diciannovesimo Rapporto sulle Condizioni di Detenzione redatto dall’Associazione Antigone (sezione “Carcere e salute mentale”) leggiamo che:

Si tratta di numeri molto rilevanti, che non trovano minimamente corrispettivo nella popolazione libera e che indicano che la strada verso “carceri psichiatrizzate” sembra ormai senza ritorno. C’è insomma un universo, ben più consistente, di persone con patologie psichiche anche gravi che vivono in sezioni diverse dalle Atsm, spesso in sezioni “comuni” delle carceri italiane.

Sostanzialmente, in un paese in cui le persone sono sempre più ostili e insofferenti rispetto ai più bisognosi e ai “diversi” (persone con disturbi psichici, indigenti, migranti…) i già scarsi fondi vengono dirottati sulle persone sane, spesso addirittura a fini di consenso. Da “prima gli italiani” a “prima gli infelici” il passo è breve.

Cosa fare, allora, di questo dolore?

Ho cercato di riportare il discorso a un livello più concreto, a costo di sembrare insensibile. D’altronde, sensibilizzare le persone su questo tema non significa presentarne (solo) una versione edulcorata. Il contrario di "salute" è "malattia". Non fragilità, non malinconia e nemmeno tristezza. Malattia.

Ciò non toglie che, con o senza diagnosi, le persone stiano male (soprattutto i giovani) e mi rendo conto che non basti una pacca sulla spalla per tirarsi su. Cosa fare, quindi? Aggiungere alla sofferenza esistente pure il senso di colpa per aver “rubato” risorse destinate ad altri? Sentire di “non essere abbastanza” nemmeno nelle proprie fragilità? Assolutamente no.

Ogni lunedì esce una newsletter curata da Michele Serra per il Post che si chiama (in modo straordinariamente eloquente) Ok Boomer! Sostanzialmente, è l’unica cosa che mi fa tollerare il lunedì. Ogni settimana Serra sceglie un tema e cerca di affrontarlo non solo dal punto di vista del boomer (il suo) ma arricchendolo con le risposte e le idee del suo pubblico più giovane. Nella puntata (si dirà così?) le cose insieme Serra scrive:

Sì, viviamo in una società ossessionata dalle prestazioni, feroce con gli esitanti, con i lenti, con chi non si adegua al ritmo. Ho però aggiunto una considerazione: che non ogni inciampo o caduta meriti un così grave abbattimento, una così desolata auto-colpevolizzazione. E ci sia dunque da lavorare (anche) sulla capacità di incassare meglio i colpi. Ora: le vostre lettere, i colpi, li restituiscono, imputando ai “vecchi” quella ben nota anchilosi mentale che impedisce loro di ascoltare i “giovani”. Imputando a loro (a noi boomers) la classica ottusità generazionale, l’incapacità di valutare i mutamenti d’epoca e di cultura, la certezza di sapere “come stanno le cose” una volta per tutte. Imputandoci, soprattutto, una diretta responsabilità nell’edificazione del mondo così come l’avete trovato.
[...] Che avessimo ragione o torto (avemmo ragioni e torti) non è il punto. Il punto è che, sulle vostre spalle, c’è un peso aggiuntivo e micidiale: la solitudine. Scusate la franchezza: o ve la levate di dosso, o siete fottuti. Condividere l’incazzatura, o la desolazione, o la contentezza, forse è un’esperienza che a voi millennials, in prevalenza, è mancata.

E ancora, in Rifarsi Una Famiglia:

In molte delle vostre lettere, specie quelle delle donne, soprattutto quelle delle giovani madri, questa nuova fragilità – questa nuova solitudine – fa spicco. Non più affollamenti di persone, però affollamenti di “doveri”, di scadenze, di fatiche, che gravano tutti interi su una sola agenda, al massimo su due: single e famiglie mononucleari molto ristrette sono la stragrande maggioranza. Così che il lavoro e il “resto della vita” si contendono l’energia e il tempo di una sola persona, che spesso è anche una persona sola. Al massimo due. E il lavoro ne esce inevitabilmente più ingombrante, direi più antipatico. Più capace di usurpare “il resto della vita”. Se molte delle incombenze e dei problemi quotidiani da affrontare hanno perduto ogni possibile soluzione “di gruppo”, nonché gratuita (il cortile con i bambini badati dai vecchi è l’esempio paradigmatico; il risotto condominiale, lo avrete capito, è solo un riferimento mitologico, anche se accadeva per davvero), allora l’alternativa tra “lavorare” e “vivere” si drammatizza. Si radicalizza.
[...] Ma – accetto scommesse – il single è anche il più grande consumatore di ansiolitici, o forse si contende il primato con le madri di famiglia stressate. Questo era per dire che se mai riuscissimo a inventarci, un bel giorno, nuove forme di socialità, di comunità, di condivisione delle fatiche, infine nuove forme di famiglia, in luoghi e modi meno promiscui e opprimenti che in passato, ma fatti per condividere certi pesi, per affrontare certe prove insieme, magari il conflitto tra lavoro e vita perderebbe almeno alcuni dei suoi spigoli.

Emergono sostanzialmente due elementi: che rispetto al passato molti legami familiari opprimenti (spesso fortemente patriarcali) si sono sfaldati facendo però venire meno quelle forme di collaborazione che alleggerivano i carichi di lavoro e semplificavano la vita. E che questo sia avvenuto in un momento storico in cui la società sta diventando più esigente e come dice Serra, “ossessionata dalle prestazioni”: godersi la vita diventa un obbligo morale, così come dare la migliore educazione possibile ai figli, trovare realizzazione nel lavoro, mantenere una buona forma fisica, mangiare sano e soprattutto, far sembrare tutto ciò "spontaneo e naturale". L’avvento dei social ha dato il colpo di grazia: le persone sono sempre “connesse” ma di fatto sempre più sole. Interagire con il mondo esterno attraverso una fotocamera trasforma gli amici in followers e il prossimo in un pubblico. Vedere solo ciò che gli altri decidono di mostrarci (la parte migliore di sé) ci fa sentire inadeguati nella nostra banalità. E allora ogni inezia, se comparata alla perfezione che ci viene propinata, viene vissuta in modo traumatico. Vi confesso che spesso sento definire "traumi" dei passaggi della vita dolorosi, certo, ma inevitabili e necessari. La morte dei nonni è un trauma per i bambini? La fine della prima storia d’amore? E da adulti, la morte dei genitori? Si possono definire “traumi” degli eventi che dall’alba dei tempi colpiscono, indistintamente, tutti gli esseri umani? Stiamo interpretando la sofferenza come un trauma che blocca il nostro sviluppo personale e non come il superamento di un ostacolo che, nella fatica, ci rafforza. A scuola o in palestra sappiamo accettare l'idea che per passare a un livello di complessità successivo si debba, per forza di cose, faticare, soffrire, ma nella vita vorremmo essere chiusi in una teca, dove nessuno dolore possa raggiungerci. Una mia cara amica sostiene che la vita sia una serie di sane, progressive e propedeutiche frustrazioni, che iniziano da piccoli, quando veniamo costretti a condividere i nostri giochi con gli altri bambini, continuano da adulti, quando dobbiamo passare la maggior parte del tempo a lavorare per poter pagare le bollette e culminano da vecchi, quando dobbiamo accettare l’idea di morire. Visione un po’ tragica, ma efficace.

Imparare, insieme, a “incassare i colpi”

Non sarà che, magari, dietro questo sempre più diffuso ricorso alla terapia si nasconda la necessità di re-imparare a incassare i colpi della vita? E che in questo nuovo contesto di solitudine un medico sia considerato più affidabile e più “imparziale” di un amico o di un parente? O che addirittura, in un momento di grande confusione e incertezza, faccia più comodo parlare con qualcuno che non ci conosce e non possa contraddire la nostra versione dei fatti? Rinunciare a queste zone di comfort e ricominciare a vedere gli altri non come modelli a cui paragonarci, ma persone imperfette come noi, potrebbe essere la soluzione.

Il già citato professor Friedman, afferma che:

Se i sintomi nevrotici o depressivi sono relativamente lievi (cioè non interferiscono con la vita di tutti i giorni), forse è meglio frequentare di meno lo studio di uno psicoterapeuta e passare più tempo con gli amici, dedicarsi a un hobby o fare volonta­riato.

In sostanza, se il confronto con i modelli proposti dai social è frustrante, invece che parlarne… sui social (sic!) o sul lettino dello psicanalista, bisognerebbe (...basterebbe?) spegnere lo smartphone e buttarsi nel mondo vero. Fare volontariato, dice Friedman, cioè frequentare quei bacini di disagio a cui abbiamo accennato, se non altro per ridimensionare le nostre paure e le nostre frustrazioni. Il filosofo e psicanalista Umberto Galimberti nel libro I miti del nostro tempo, dedica un paio di capitoli al “mito della psicoterapia” e scrive:

Perché la categoria della “malattia” deve occupare tutto lo spazio fino a oscurare la profonda parentela che esiste tra l'eccesso dell'anima e la sua normale condizione? Perché ricorrere subito a un medico o a un farmaco quando la malinconia di un adolescente o la sua angoscia, almeno all'inizio, stanno implorando solo un po' di ascolto? Davvero non abbiamo più alcuna fiducia in uno sguardo comprensivo, in una parola che sa corrispondere all'abisso della disperazione? Davvero non abbiamo più tempo in questa epoca che ci vuole tutti insensatamente gioiosi e, se non riusciamo, almeno mascherati da quella fredda razionalità che non lascia trasparire alcun moto d'anima? E allora, se proprio nessuno ci ascolta, se noi stessi, complici di questa mancata comunicazione imbocchiamo quella strada che ci porta a tacitare l'anima, per poi offrirci, disarmati, alle sue profonde perturbazioni che neppure sappiamo più riconoscere e tanto meno nominare, se il silenzio attorno a noi e dentro di noi si è fatto cupo e buio, apriamo un luogo di conoscenza, una terra amica, dove possiamo constatare che le “malattie dell'anima” prima che una faccenda mediatica o farmacologica, sono condizioni comuni dell'esperienza umana, che i poeti, prima e meglio degli psichiatri, sanno descrivere in tutta la loro abissalità.

Io non ho una risposta alle domande che ho posto. Forse Concita De Gregorio nel suo libro Così è la vita ce l’ha. Vorrei che il compito di ricomporre i cocci della nostra anima fosse affidato agli amici, anziché a degli estranei, pur con una laurea in psicologia. Vorrei che la smettessimo di offenderci per il commento di un amico, equiparandolo al giudizio ignorante di un leone da tastiera. Vorrei che la frase “tu non puoi capire” venisse sostituita da “provo a spiegarmi”. Insomma, vorrei che come società restituissimo all'amicizia parte di quel ruolo che le abbiamo negato, perché, forse, “la psicoterapia non è per tutti”, ma l’amicizia sì.

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