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PD, di’ qualcosa di sinistra!



«Negli ultimi tempi mi è capitato spesso di ripensare ai fatti di Genova. All'epoca ero molto giovane e ricordo solo un gran bombardamento di immagini al telegiornale; Immagini che hanno segnato profondamente l'opinione pubblica e che non lasciavano molti dubbi su chi fossero i “buoni” e chi i “cattivi”» 


Fino agli anni Settanta la sinistra è stata capace di movimentare grandi masse di cittadini, di catalizzare le istanze reali delle persone. Poi qualcosa si è rotto. Il cambiamento è iniziato con la nuova immagine della sinistra plasmata da Berlusconi attraverso il suo impero mediatico. È culminato col G8 di Genova. Da quel momento la sinistra è stata vittima della narrazione che la voleva perdente, estremista e antidemocratica. Si è fatta superare da partiti populisti “senza storia”, come il M5S. Si è nascosta dietro la retorica del “non consegnare il paese alla destra”. Si è arroccata su posizioni identitarie e su rivendicazioni “di bandiera”, lontane dalle priorità delle persone.

È ancora possibile invertire la rotta? Parliamone.

Da Berlinguer a Craxi

“Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona” cantava Giorgio Gaber. Era vero. Negli anni Settanta la sinistra faceva paura ai servizi segreti, al Vaticano, a coloro che guardavano le cose dall’alto, in un’ottica di blocchi contrapposti. Ma dal basso, alle persone comuni, il Partito Comunista non faceva paura, pur avendo un’agenda tutt’altro che moderata. La sinistra era percepita come vicina, sodale. Si occupava di temi che interessavano alla maggioranza delle persone, come il diritto al divorzio, all’aborto. Politici e sindacalisti discutevano da pari a pari con gli operai delle fabbriche di salario minimo, di maggiori tutele per i lavoratori, di riduzione dell’orario di lavoro e dei ritmi di produzione. Non solo. Il PCI (pedagogico per dichiarata investitura gramsciana) si faceva carico di istruire le masse e di formare la futura classe dirigente in scuole di partito, come quella di Frattocchie:

Educare alla politica ha significato per un partito pedagogico come il Pci investire sulla formazione, con corsi che potevano durare da sei mesi a un anno, interamente finanziati e quindi gratuiti per i frequentanti, sia per vitto e alloggio, sia per i materiali di studio. [...] I giovani selezionati dovevano essere consapevoli di costituire un investimento per il partito, da risarcire con un rendimento scolastico che potesse rispecchiare determinati requisiti, sia negli studi che nel comportamento durante i corsi [...]
Anna Tonelli, Una formazione politica senza la Storia. Le scuole di partito del Terzo millennio, in Novecento.org, n. 14, agosto 2020).

Se negli anni Settanta tutto era politica, negli anni Ottanta si assiste a un progressivo disimpegno. Per indagarne i motivi forse bisogna distinguere due piani: quello politico e quello sociale. Dal punto di vista politico, l'assassinio di Moro e le bombe degli Anni di Piombo avevano fiaccato lo spirito degli italiani, stanchi di continue lotte e di doversi costantemente schierare.

La sublimazione di questa stanchezza è rappresentata dalla cosiddetta “marcia dei quarantamila” dell’autunno del 1980 a Torino. La marcia, organizzata dagli impiegati della FIAT in contrapposizione ai loro colleghi operai che da 35 giorni picchettavano gli ingressi della casa automobilistica torinese, costituisce una forte spaccatura interna al fronte dei dipendenti. La contromanifestazione degli impiegati ha infatti permesso alla dirigenza FIAT di vincere la vertenza nei confronti dei sindacati ma soprattutto ha fatto venire meno la convinzione collettiva che la lotta e la protesta potessero essere strumenti di forza contrattuale nelle relazioni industriali.

Dal punto di vista sociale, lo sviluppo delle piccole-medie imprese, che tuttora costituiscono il nerbo dell’economia italiana, contribuì a “rimescolare le classi” come forse mai prima nella storia del nostro paese. L'ex operaio che si metteva in proprio e assumeva un paio di dipendenti instaurava con loro un rapporto diverso da quello “classico” tra padrone e operaio.

Da disimpegno a disillusione il passo è breve. L’inchiesta di Mani Pulite ha dato un primo duro colpo alla fiducia degli italiani nella politica (la scena delle monetine lanciate a Craxi è diventata iconica). Il berlusconismo avrebbe fatto il resto.

Il ventennio berlusconiano

Cosa è stato il berlusconismo? Per anni la sinistra si è scagliata contro Silvio Berlusconi con ogni mezzo, cercando qualsiasi pretesto per incastrarlo, a costo di farne una vittima.
Al Capone è stato un feroce assassino ma è stato possibile incriminarlo solo per evasione fiscale. La sinistra ha cercato di applicare lo stesso schema con Berlusconi: in attesa della prova schiacciante che svelasse la natura dei suoi torbidi rapporti con la mafia, e viste le difficoltà nel dimostrare in termini legali la scorrettezza di chi le leggi le faceva (palesemente ad personam, come la legge Frattini sul conflitto di interessi), la sinistra ha cercato ogni appiglio, incluso il discredito morale. Berlusconi veniva accusato di trattare le donne come metro con cui misurare il successo di un uomo, alla stregua di accessori di lusso. Era un atteggiamento moralmente esecrabile, ma non era un reato.

In tutta risposta, Berlusconi ha scatenato il suo impero mediatico, arruolando schiere di veline, soubrette, all’unico scopo di rimarcare la distanza tra lo scintillio del suo mondo fatto di soldi, donne e successo e la mediocrità incarnata dalla sinistra. I politici di sinistra sono stati sistematicamente descritti come perdenti. Se la misura del successo è data da soldi, donne e bellezza, a cosa servivano la virtù e la cultura? Berlusconi ne usciva come colui che aveva “il coraggio di dire le cose come stanno”. Abbassando il livello della discussione (il Maestro Manzi a Mediaset sarebbe stato disoccupato) si era avvicinato all’italiano medio.

Il capolavoro politico di Berlusconi, però, è stato insinuare nella mente delle persone questo pensiero: che la lotta di classe fosse l’ultima carta da giocare per chi “non aveva i numeri” e che parlare di redistribuzione del reddito tradisse, sostanzialmente, invidia sociale. Berlusconi è riuscito nell'ambizioso intento di trasformare la lotta di classe nella favola de “la volpe e l’uva”. Nessuno vuole appartenere alla schiera dei perdenti e portare (oltretutto) il peso di essere additato come rancoroso e mediocre. Da quel momento, l’idea di riuscire a “farcela”, anche con mezzi poco ortodossi, è stata definitivamente sdoganata. Questo è il substrato da dove sono spuntati gli influencer di oggi, e guai a criticarli, perché il seme del sospetto che “se capitasse a te faresti lo stesso” era stato piantato. 
“La lotta di classe c’è stata e l’hanno vinta i ricchi", dichiara senza giri di parole Alessandro Barbero.

Da perdente a violenta: G8, Genova, 2001

Negli ultimi tempi mi è capitato spesso di ripensare ai fatti di Genova. All'epoca ero molto giovane e ricordo solo un gran bombardamento di immagini al telegiornale; Immagini che hanno segnato profondamente l'opinione pubblica e che non lasciavano molti dubbi su chi fossero i “buoni” e chi i “cattivi”.

Ho il sospetto che quella vicenda sia stata uno spartiacque culturale e politico, di cui né la mia generazione né quelle precedenti abbiano piena consapevolezza. Mi sembra che da quel momento in Italia si sia continuato a ragionare sulla sinistra, sulle manifestazioni giovanili (ma anche sull’opportunità stessa di manifestare) con il filtro del G8 di Genova.

Il movimento no global italiano che si era dato appuntamento a Genova era variegato, numerosissimo: parliamo di circa 200.000 persone. Comprendeva più di mille gruppi e movimenti, vedeva al suo interno partiti, movimenti cristiani, sindacati. C’erano le ONG della rete Lilliput, i centri sociali, i movimenti femministi, il WWF, Legambiente. Però purtroppo c’erano anche gli esponenti del black bloc. Per dare una proporzione, circa 400 persone.

Solo vent’anni dopo, grazie al bel podcast Limoni, di Internazionale ho scoperto che la differenza tra buoni e cattivi era più sfumata di quanto pensassi.
Scrive Stefano Nazzi nell’articolo Cosa successe al G8 di Genova:

Il servizio d’ordine di Rifondazione comunista fece scappare i Black bloc, che però continuarono a muoversi, in gruppi di dieci-venti persone. Le forze dell’ordine non le intercettarono mai. Il Blocco nero, fuggendo dal carcere di Marassi, incontrò i manifestanti della rete Lilliput attaccandoli con sassi e bottiglie. Poi si mise di nuovo in fuga. Quando arrivarono i carabinieri, caricarono inspiegabilmente i manifestanti pacifici della Lilliput. [...] In via Tolemaide il corteo si trovò di fronte il contingente dei carabinieri alla disordinata ricerca del Blocco nero. Sembrò una scena da film, manifestanti e carabinieri sorpresi di trovarsi gli uni di fronte agli altri. Ma l’errore peggiore fu quello successivo. I carabinieri, scortati da numerosi blindati, iniziarono a lanciare decine di lacrimogeni verso il corteo. Poi i militari caricarono in massa facendo quello che in qualsiasi manuale dell’ordine pubblico viene assolutamente sconsigliato: attaccare un corteo senza lasciare una via d’uscita. In una registrazione acquisita dai magistrati si sente chiaramente un funzionario che dalla centrale operativa urla: «Nooooo, che cazzo fanno? Hanno caricato le tute bianche. No, no!»

Alla scuola Diaz gli agenti introdussero di nascosto bombe molotov, per giustificare il pestaggio di persone inermi e disarmate. E alla caserma di Bolzaneto:

I giovani furono fatti stare in piedi per ore con il volto rivolto contro il muro e le mani alzate, mentre gli agenti facevano suonare a ripetizione la canzone fascista “Faccetta nera” e intonavano il ritornello “un due tre, evviva Pinochet, quattro cinque sei, bruciamo gli ebrei”. I piercing vennero strappati, chi era ferito venne colpito sulle ferite. Un ragazzo venne fatto girare per la caserma a quattro zampe abbaiando. Le donne subirono minacce di stupro, non poterono utilizzare il bagno. Il medico capo dell’infermeria di Bolzaneto insultò i feriti dando loro delle “maledette zecche”, e si rifiutò di mandare in ospedale anche chi stava veramente male.

Vennero fermate più di 500 persone. Nessuna di loro apparteneva al black bloc. Amnesty International l’ha definita “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale”. Il dirigente della polizia Ansoino Andreassi al processo per i fatti della Diaz dichiarò che: «C’era l’esigenza di fare molti arresti per poter recuperare l’immagine delle forze dell’ordine». Se questo era l’intento, è stato fatto bene. Nella mia famiglia non veniva fatta nessuna distinzione tra manifestanti pacifici e anarchici del black bloc e, per quanto i miei genitori avessero simpatie per il centro destra, non erano certo dei fascisti. Eppure, i manifestanti sono stati buttati tutti, indistintamente, nello stesso calderone. “Se la sono andata a cercare”; “alla faccia dei pacifisti!”; “Sono tutti uguali”. Questo è il messaggio che è passato al telegiornale.

Eh già, al telegiornale.

Con il senno di poi, è facile notare quanto fosse inopportuno che il Presidente del Consiglio Italiano, organizzatore del G8 e responsabile politico dell’evento, fosse anche colui che aveva in mano la narrazione, grazie al suo impero mediatico.

Abbiamo visto tutti Carlo Giuliani brandire minacciosamente l’estintore. Non abbiamo visto le immagini del carcere di Bolzaneto o del pestaggio alla Diaz. Sottigliezze? Forse. Fatto sta che non ci sono più state manifestazioni dopo Genova (non di quelle dimensioni), o se ci sono state, era come se i manifestanti dovessero giustificare la loro presenza, chiedere il permesso, promettere di non disturbare. Starsene a casa, non andarsela a cercare.

Non è così che funziona in una democrazia sana. Quei requisiti di ineccepibilità che, dopo Berlusconi, non venivano più richiesti ai politici di destra, erano invece richiesti ai militanti di sinistra.

La sindrome della “brava bambina”

Ho fatto questa lunga ricostruzione storica perché condivido quanto dice Kamala Harris:

You think you just fell out of a coconut tree? You exist in the context of all in which you live and what came before you.

Siamo quel che siamo perché siamo parte di un processo. La sinistra non ha perso la credibilità da un giorno all’altro, non siamo passati da Berlinguer a Schlein dal giorno alla notte. A questo processo hanno contribuito, come ho cercato di spiegare, elementi sociali, politici, addirittura mediatici.

Ciò che ha sicuramente contribuito a deteriorare l’immagine della sinistra negli ultimi anni è stato quel “richiamo della responsabilità”, per cui il PD è rimasto al governo dal 2011 al 2022 (nell’ordine, governi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte II, Draghi), senza aver mai vinto le elezioni, allo scopo (nobile, ma non richiesto e tantomeno apprezzato) di “mettere una pezza” alle iniziative scellerate degli avversari ed evitare il default del paese.

In Inghilterra il partito laburista di Keir Starmer ha vinto. Ha vinto perché le persone hanno provato sulla propria pelle le conseguenze disastrose delle scelte politiche dei conservatori. Il paese si è impoverito, si è incattivito, ha smantellato il sistema sanitario, che era stato il suo fiore all’occhiello. I cittadini non hanno avuto dubbi su chi fosse responsabile di questo e hanno votato per la sinistra.

In Italia non è andata così: i cittadini non hanno capito che le “lacrime e sangue” attribuite a Mario Monti fossero in realtà frutto degli errori politici di Berlusconi. Il “bonus 110” ha sconquassato le finanze italiane, ma i cittadini non sanno distinguere tra le responsabilità del Movimento 5 Stelle e del PD, perché li hanno visti governare insieme.

In cuor mio, sono felice di non aver dovuto assistere al default del mio paese. Sono felice che Elsa Fornero abbia fatto quella riforma delle pensioni. Sono felice anche che Matteo Salvini abbia fatto (l’ennesima) pessima figura chiedendo pieni poteri in una spiaggia e trovandosi con un mucchio di mosche in mano, in parlamento. Però sul lungo periodo, il fatto di non aver mai lasciato l’avversario di fronte alle sue responsabilità non ha pagato. In questo atteggiamento politicamente suicidario io ci vedo tutti i sintomi della “sindrome della brava bambina”, e credo che alla base di questa sindrome ci sia il disperato tentativo di dissociarsi da quell’immagine plasmata da Berlusconi di una sinistra violenta, estremista e rancorosa. Nel film "Aprile" del 1998, Nanni Moretti aveva detto, profeticamente:


Non dobbiamo reagire, eh, nervi saldi. Dobbiamo rassicurare, a forza di rassicurare ci arriva una bastonata il giorno delle elezioni…

PD, di’ qualcosa di sinistra!

Negli ultimi cinquant’anni destra e sinistra si sono scambiate i ruoli e purtroppo l’elettorato è troppo ignorante per cogliere l’assurdità di certe esternazioni. La destra attacca il PD per non aver reciso i legami con il suo passato totalitario e di essere “nell’intimo legata a un’ideologia nefasta e antiliberale” (sic!) e frigna perché si sente inspiegabilmente esclusa dai poteri forti. La sinistra, che era la portavoce delle masse, ora viene descritta come il partito dei comunisti col Rolex, dei radical chic, dei professoroni, ma anche di quelli che preferiscono andare ai gay pride piuttosto che occuparsi di problemi reali. L’attuale segretaria del PD non è propriamente il prototipo dell’italiano medio: di buonissima famiglia, con tripla cittadinanza (italiana, statunitense e svizzera), dichiaratamente bisessuale. Personalmente, non lo ritengo un problema. Però ciò non toglie che sia quantomeno difficile riconquistare quelle ampie fasce della popolazione che non si sentono più rappresentate. Che ne sa Elly Schlein della fatica che fanno le persone “normali” a ottenere un mutuo? Si obietterà che Silvio Berlusconi era ben più ricco di Schlein, che Matteo Salvini non abbia lavorato un giorno nella sua vita, che Giorgia Meloni abbia appena acquistato una villa da più di un milione di euro. È tutto vero, ma da Berlusconi in poi è questione di narrazione e di apparenza. Sulla sinistra, come abbiamo visto, oltre all’accusa di incongruenza gravano anche quelle di invidia sociale e di estremismo.

Per uscire da questa impasse la sinistra deve smettere di inseguire l’avversario e ricominciare a dettare l’agenda sul campo che le è più congeniale. In che modo? Per esempio, ricordando ai cittadini che lo stato non è un’azienda, da affidare a manager e imprenditori, ma il garante dell’equità sociale. Dobbiamo pretendere asili nido pubblici, una sanità migliore, una maggiore compatibilità tra gli orari scolastici e quelli lavorativi. Negli ultimi decenni il concetto di famiglia è molto cambiato, le donne oggi lavorano. C’è una nuova sensibilità, più attenta all’indipendenza economica delle donne, ma c’entra anche il fatto che negli ultimi decenni il potere d’acquisto della classe media si è inesorabilmente ridotto e uno stipendio solo non basta più a mantenere una famiglia. Non è per frivolezza o egoismo che le persone fanno meno figli, come amano ripetere a destra, ma è perché è più difficile gestirli.

La conseguente crisi demografica avrà effetti molto rilevanti: se ci sono più persone che percepiscono una pensione di quante lavorino, il sistema non regge. I contributi versati da chi lavora non vengono accantonati in attesa di essere restituiti una volta raggiunta l’età pensionabile, ma vengono spesi man mano per pagare le pensioni attuali. Non solo: una bassa natalità significa che in futuro avremo meno medici, meno infermieri, meno autisti; tutto questo in un paese sempre più vecchio e più fragile. Il ruolo di un partito di sinistra non è rassicurare, è dire alle persone la verità, e trovare soluzioni credibili, non i soliti slogan. Non abbiamo tante alternative: dobbiamo gestire l’immigrazione regolare e allargare i criteri per concedere la cittadinanza.

Se c’è una cosa che stiamo imparando da Giorgia Meloni è che essere moderati, in termini elettorali, non paga. La sinistra italiana dopo Genova ha vissuto nel terrore di essere considerata estremista. Quando estremista lo era davvero e non aveva paura di puntare in alto (ad esempio, negli anni Settanta), il consenso era molto più alto. Allora chiudo parafrasando di nuovo Nanni Moretti: “PD, di’ qualcosa di sinistraaa!





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