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SE LA VITTIMA NON È INNOCENTE

«Quando poi quello stesso bambino cresce e si imbarca per raggiungere clandestinamente l’Italia, allora, senza mezze misure, perde la sua innocenza, esce dal ruolo "preconfezionato" di vittima, che ci rassicura tanto, e perde la nostra solidarietà»                                                                                                                                                

Qualche tempo fa ero in ufficio, stavo lavorando con un collega su un nuovo programma informatico e ogni volta che inserivo un numero, ad esempio 5, il sistema lo trasformava in 5.21. “Ma perché non arrotonda?” ho detto, scocciata. Il mio collega, più giovane eppure più saggio di me, ha risposto “non arrotonda perché non è umano. Noi arrotondiamo a 5 o a 10 perché la natura ha voluto che le nostre mani avessero 5 dita. Ma se ne avessimo avute 6, arrotonderemmo per 12”.

A fronte di questa sconcertante ovvietà, pari solo alla scoperta del protagonista di “Uno, nessuno, centomila” di avere il naso che pende verso destra, il mio cervello ha iniziato a macinare. 
Ho sempre creduto, e spesso detto, che tendiamo a pensare in modo binario perché abbiamo introiettato il codice dei computer: 0-1. Che scemenza. Pensiamo in modo binario perché abbiamo due mani, due braccia, due gambe, due occhi.

Il pensiero binario è quello che interpreta il mondo in due parti: bene/male, giusto/sbagliato, vittime/carnefici, noi/loro. Questo approccio ci viene naturale, è scritto nel nostro DNA, ma se è vero che la civiltà consiste nell’allontanarsi progressivamente da quello che è istintuale (primitivo, “bestiale”, potremmo dire) allora dovremmo fare uno sforzo e cercare di superare la “necessità corporea” di pensare in modo binario, perché le opzioni sul tavolo non sono mai davvero soltanto due.

Eppure, non siamo a nostro agio quando i confini sono sfumati, quando non capiamo da che parte posizionarci. Mi sono chiesta tante volte perché qualsiasi argomento diventi il campo di battaglia di due fazioni opposte, quasi due tifoserie, e perché adesso in televisione e per strada il dibattito sia molto più scadente, mi sembra, di quanto fosse decenni fa, pur essendo aumentati l’alfabetizzazione e l’accesso alla cultura. Purtroppo questi sono tempi bui per il pensiero complesso. Secondo il rapporto OCSE un italiano su 3 è analfabeta funzionale, cioè non sa distinguere una notizia vera da una falsa, non sa interpretare i dati, non sa distinguere un caso isolato da una tendenza generale.

Ma non è solo questo. A incidere è anche l’individualismo che caratterizza i nostri tempi, il pensare che la nostra opinione valga a prescindere, “perché io valgo”, come dice la pubblicità. Il posizionamento individuale, il dichiarare pubblicamente “da che parte si sta” è diventato più importante (e più urgente) del capire o risolvere le cose.

Barack Obama parlando a Pod Save America ha parlato dell’attivismo performativo e degli scontri sui social tra le fazione che giustifica la reazione militare di Israele e quella che invece si schiera a fianco dei palestinesi.

Se c’è qualche possibilità di poter agire in modo costruttivo per “fare qualcosa”, ci sarà bisogno di un’ammissione di complessità e di tenere insieme delle idee che in superficie possono sembrare contraddittorie: che quello che Hamas ha fatto è orribile e che non c’è giustificazione che tenga; e che è vero anche che l’occupazione e quello che sta accadendo ai palestinesi è intollerabile; e che è vero anche che c’è una storia del popolo ebraico che rischia di essere rimossa, se non fosse che i tuoi nonni, o i tuoi bisnonni, o tuo zio, tua zia ti raccontano delle storie sulla follia dell’antisemitismo; e che è vero anche che ci sono persone che adesso stanno morendo e che non hanno niente a che fare con quello che ha fatto Hamas; e che è vero anche…
cioè, potremmo andare avanti un bel po’ e il problema con i social media, l’attivismo di TikTok, che cercano di discutere su questo, è che tu non puoi dire la verità. Puoi fare finta di dire la verità, puoi dire una parte della verità e in alcuni casi puoi cercare di conservare la tua innocenza morale per il fatto di aver afferrato quel piccolo frammento di verità. Ma questo non risolverà il problema, e quindi se vuoi risolvere il problema allora devi capire la verità nella sua interezza e devi ammettere che nessuno ha le mani pulite e che tutti noi siamo complici in una certa misura. 
(Dal minuto 20:45, la traduzione è mia)


“Puoi conservare la tua innocenza morale per il fatto di aver afferrato quel piccolo frammento di verità” dice Obama. In altre parole, puoi sentire di avere la coscienza a posto, di stare dalla parte giusta. Questo concetto è ripreso anche da Francesca Mannocchi, intervistata per Lucy da Irene Graziosi in una conversazione dal titolo non distogliere lo sguardo dalle vittime di guerra
Mannocchi racconta di essere andata in Qatar per incontrare dei bambini palestinesi, visto che dall’inizio dell'offensiva militare israeliana a Gaza i giornalisti internazionali non possono entrare nei territori palestinesi. È andata quindi a Doha, in un complesso che era stato costruito per i mondiali di calcio del 2022, in cui sono attualmente ospitati circa 800 bambini che hanno subito una o più amputazioni. Mannocchi dice: 

Dall'inizio dell'offensiva militare su Gaza sono stati amputati gli arti a dieci bambini al giorno: numeri che non ci dovrebbero far dormire la notte ma che diamo come se parlassimo del “quanto basta” delle ricette del ciambellone.

Mannocchi va in Qatar e incontra questi bambini senza braccia, senza gambe. Bambini di tutte le età, anche di 1 anno. Prepara un reportage video di una quindicina di minuti in cui decide scientemente di non indugiare sulle ferite e di non mostrare i casi più gravi, ma di concentrarsi sulla loro quotidianità annullata per sempre. “Sull'impossibilità del gesto semplice”, dice. Poi il pezzo è andato in onda a Propaganda Live e sin dai primi tweet di commento Mannocchi si accorge che la tendenza è dire: “povere creature, è terribile! Vorrei poter fare qualcosa, però adesso devo cambiare canale, perché non ce la faccio a guardare”. La giornalista commenta così:

Mi ha veramente turbata il fatto che persone che dimostravano una grande partecipazione emotiva al dramma di questi bambini dal futuro ormai negato, non riuscissero a sostenere lo sguardo della loro menomazione fisica, delle loro amputazioni. Il mio primo pensiero è stato: “Che lo facciamo a fare? A che serve?”. Poi ho pensato a “davanti al dolore degli altri” di Sontag e ho pensato a quel monito che lei dà su quelle pagine, che è sull’ambivalenza della compassione, di quanto la compassione sia un sentimento ambivalente, perché ci fa sentire non coinvolti nella responsabilità attiva di quello che succede. No? Tu provi compassione e quindi ti senti “assolto” per il fatto stesso di aver provato compassione.
Le reazioni a questo racconto mi sembravano ancora un passo oltre: provo compassione ma non voglio neanche più vedere, quello che ho già visto è abbastanza, quello che so mi basta. Quello che so delimita un perimetro che non voglio oltrepassare, perché oltre quello sono un cittadino turbato, sono un cittadino coinvolto; sono un cittadino che deve prendere la responsabilità di dire e fare qualcosa perché tutto questo è troppo.

Guardando la terribile menomazione fisica di questi bambini, mi è venuta in mente l’esperienza di Beatrice Vio, che all’età di 11 anni è stata contagiata da una meningite fulminante di tipo C, che ha portato all’amputazione di tutti e quattro gli arti. Perché come opinione pubblica “sopportiamo” la visione di Beatrice Vio, al punto da chiamarla confidenzialmente “Bebe”, mentre quella dei bambini palestinesi no? Sostanzialmente, perché, almeno da una prospettiva esterna (e superficiale), ci sembra che Vio, anche e soprattutto grazie al supporto straordinario dei suoi genitori, abbia avuto dalla vita una sorta di “risarcimento”. Ci consola sapere che negli anni è diventata bella, famosa e ha potuto realizzare il suo sogno, cioè eccellere nella scherma. Il lieto fine ci rassicura, ci dispensa dal dover fare qualcosa e ci permette di non dover attraversare quel “perimetro oltre il quale diventiamo cittadini turbati”. 

Dovremmo davvero interrogarci su quanto meschino possa essere l’egocentrismo delle persone: di fronte a un bambino orribilmente amputato la risposta non può essere “io non ce la faccio”, “io soffro troppo”. Ci sono dei casi in cui la nostra sofferenza è irrilevante. Noi siamo irrilevanti.
 
Nel periodo in cui Beatrice Vio è stata contagiata (era l’inizio del 2008), nella provincia di Treviso si è verificato un cluster epidemico: almeno 7 casi accertati e 3 decessi. Non conosciamo i nomi, i volti e le storie delle altre persone contagiate. Le abbiamo rimosse, non le abbiamo volute vedere…
Possiamo continuare a dire che i vaccini fanno più male delle malattie, tanto le malattie non le vediamo più.

Analogamente, nelle campagne di sensibilizzazione e di raccolta fondi per la ricerca sulle malattie rare (ad esempio quelle di Telethon) si parla quasi solo di bambini. Certo, con una malattia rara è difficile sopravvivere molto a lungo, ma non è solo questo. Proprio per quella tendenza a ragionare per estremi opposti, i bambini sono “i giusti”, “gli innocenti” per eccellenza: un bambino malato fa tenerezza. Un adulto malato è disturbante. Lo stesso vale per le donazioni per i poveri del mondo: tutti vorrebbero aiutare un bambino affamato e innocente. Quando poi quello stesso bambino cresce e si imbarca per raggiungere clandestinamente l’Italia, allora, senza mezze misure, perde la sua innocenza, esce dal ruolo "preconfezionato" di vittima, che ci rassicura tanto, e perde la nostra solidarietà.

Se una vittima smette di essere innocente, magari perché ha l’ardire di chiederci di rinunciare a qualcosa per aiutarla, allora non ci piace più.


In una chiacchierata con Luca Sofri, Zerocalcare parla del fatto che ormai le persone riescono a empatizzare solo con chi è “innegabilmente vittima”. Se non lo è, o se non lo sembra, perché magari ha manifestato anche solo un briciolo di aggressività (per paura o per autodifesa), allora basta, perde qualsiasi diritto e qualsiasi considerazione.
In un altro podcast (Il Natale di Zerocalcare, per Internazionale), fa un esempio pratico: nel pacchetto sicurezza approvato dal governo Meloni c’è una norma che vincola la vendita di una SIM per il cellulare al permesso di soggiorno. Giusto, si dirà, un minimo di tracciabilità ci vuole. Però per tracciare le persone basta un documento qualsiasi, una carta d’identità ad esempio.
Zerocalcare racconta la storia di Liz: arrivata con un visto turistico dal Perù, invece di tornare a casa è rimasta a lavorare in Italia, perchè in Perù faceva la fame mentre qui riesce a mettere insieme uno stipendio facendo le pulizie in nero. Liz non ha il permesso di soggiorno, quindi oggi non riuscirebbe ad acquistare una SIM per il cellulare. Il punto è proprio questo: Liz non smette di essere una persona “normale” solo perché non ha tutti i documenti in regola, e con il telefonino fa tutto quello che fanno le persone normali: chiama gli amici, avvisa la signora quando fa tardi al lavoro perché l’autobus non è passato, usa Google Maps quando deve cercare l'indirizzo di un nuovo cliente, insomma… cose che facciamo tutti. 

Il fatto di non avere un permesso di soggiorno rende Liz una criminale? No. È “innegabilmente una vittima”? Nemmeno. E allora?

E allora anche Liz (e le migliaia di persone come lei) finiscono in quel buco nero di invisibilità dove releghiamo tutto ciò che esce dal rassicurante perimetro del nostro angusto sistema binario. O in carcere, dove buttiamo migliaia di persone (che spesso non sono ancora state condannate) e le costringiamo a vivere in condizioni disumane e indegne di un paese democratico. La pena consiste nella privazione della libertà, non nella tortura, e dopo aver provato in prima persona l'esperienza del lockdown dovremmo sapere quanto questa sia soffocante, anche se l'abbiamo vissuta solo per pochi mesi. 

Molte delle persone che buttiamo in galera sono vittime di un sistema che non ha dato loro scelta. Povertà, discriminazione, ignoranza, malattia mentale. Non tutti quelli che si trovano dietro le sbarre sono dei pericolosi tagliagole (quelli li liberiamo e li accompagniamo a casa con un volo di stato), molti sono semplicemente "gli ultimi". Non sono innocenti, ma sono recuperabili. Il problema è che per reinserirli nella società servono risorse e serve volontà politica, e questa deve partire dal basso, deve partire da noi. 
Ci vuole la maturità civica di capire che queste situazioni non spariscono solo perché noi ci rifiutiamo di guardarle, e tantomeno si risolvono. Da bambini ci coprivamo gli occhi con le mani e pensavamo che il mondo sparisse. Da adulti dovremmo aver capito che l'unico modo di risolvere i problemi è affrontarli e che, purtroppo, non basta "aumentare le pene". Quello che serve sono buon esempio, umanità e prevenzione, e queste cose si ottengono solo finanziando i servizi di recupero anche di quelli che non ci sembrano del tutto innocenti (SerD, carceri, istituti psichiatrici, centri di accoglienza). 

Chiudo tornando sulle parole di Francesca Mannocchi:

Perché raccontiamo meno il male? Perché il male è perturbante: ci ricorda quanto anche noi abbiamo dentro quella cosa lì. Ci solleva di più guardare il bene degli altri perché lo specchiamo nel nostro e pensiamo “quella inclinazione ce l'ho anch'io, anch’io posso fare a metà del litro di latte! Anch’io sono solidale con la vittima”.
“Anch’io so comprendere il colpevole” ci piace molto meno ed è proprio il principio del perturbante. Per me è una specie di trincea lessicale, per quello che ci dicevamo prima: se tutto è terrorista, niente è terrorista… e allora chi è un terrorista? Ma di più: il mio lavoro serve a dire “chi è un terrorista” o serve a dire “perché sei diventato quello che io chiamo un terrorista”?
(...) Perché in una storia in cui l'ho già definito “terrorista” io la realtà non la devo interrogare; la realtà è lì: e quel ragazzino è un terrorista.
Se io dico “un ragazzino di 14 anni che ha preso le armi” devo chiedermi perché lo ha fatto e questo lascia aperta la possibilità che l'orizzonte domani per un altro ragazzino sia diverso.

Per approfondire
Una lista di romanzi i cui protagonisti sfuggono alle definizioni:

Come d'aria, di Ada D'Adamo, Elliot Edizioni, 2023.
V13, di Emmanuel Carrère, Adelphi, 2024.
Venuto al mondo, di Margaret Mazzantini, Mondadori, 2008.
Lolita, di Vladimir Nabokov, Adelphi, 1993.


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