«La guida poi ci chiede, un po’ provocatoriamente (conosce i suoi polli, ha vissuto in Italia per qualche anno): chi è l’eroe nazionale per voi italiani? Eh, bella domanda!»
5 giugno, 2023. Ero in vacanza, in Uzbekistan, nella cittadina di Shahrisabz, città natale del grande condottiero Tamerlano, un tipo zoppo che in una trentina d’anni (1370-1405 d.C.) ha conquistato un impero che andava dall’Anatolia alle rive del Gange. Una robetta, insomma. La guida locale ci spiega che sono passati molti secoli, ma Tamerlano è tuttora fonte di orgoglio per tutti gli uzbeki. La guida poi ci chiede, un po’ provocatoriamente (conosce i suoi polli, ha vissuto in Italia per qualche anno): chi è l’eroe nazionale per voi italiani?
Eh, bella domanda! Mi lancio io: Garibaldi! Ma un signorotto leghista vicino a me risponde sarcastico con un “Garibaldi faceva meglio a restare a casa!”. Allora mio marito rilancia più prudentemente con “Cavour” ma le signore intorno a noi hanno una faccia perplessa, che sembra dire "perché, che ha fatto Cavour?” Qualcuno, più indietro, dice “il Duce!” e allora io vorrei cavarmi gli occhi, ma per fortuna la guida capisce che è ora di cambiare discorso e ricomincia la visita.
Sono una persona che rimugina parecchio sulle cose, infatti sono quasi due anni che ripenso a quella domanda e a tutte le implicazioni che essa contiene. Ad esempio, ho ancora in testa una considerazione amara che aveva fatto anni fa Corrado Augias. Non ricordo in quale occasione (forse era un 25 aprile?) e nemmeno le parole precise, ma sostanzialmente Augias diceva che arriverà un giorno in cui la memoria della Resistenza non scalderà più il cuore degli italiani, così come è già accaduto con il Risorgimento: “Garibaldi faceva meglio a restare a casa”, ecco appunto. Come se non avessimo aspettato un Garibaldi per secoli, come se Dante, già nel Duecento, non avesse scritto “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/nave sanza nocchiere in gran tempesta,/non donna di provincie (padrona nelle sue province), ma bordello!”. La nota tra parentesi è mia.
Sono sicura che la nostra incapacità di trovare una risposta comune a una domanda tutto sommato semplice, dipenda in larga parte dal fatto che non conosciamo la nostra storia. Non voglio metterla sul piano di “siamo una nazione di ignoranti”, perché so bene che la questione è più complessa di così. Quello che voglio dire è che la storia e i valori di un paese non si imparano leggendoli sui libri di storia un paio di volte quando si è giovani. Non funziona così. Le storie che fanno di noi la nazione che siamo sono quelle che impariamo in modo “vivo”, attraverso le filastrocche, i racconti, i discorsi che sentiamo a casa. Sono storie che ci vengono ripetute ancora e ancora. Un paio di esempi, altrimenti non ci capiamo. Noi italiani basiamo gran parte della nostra identità sulla cucina. Non si tratta di una storia che affonda nei secoli (gran parte delle ricette tradizionali risalgono agli anni Sessanta o giù di lì), ma le abbiamo assimilate vedendo le nonne, le mamme, domenica dopo domenica; sentendo la zia che chiede alla mamma come hai preparato questo arrosto, senti che buono, cosa ci hai messo? E poi ci abbiamo costruito sopra programmi televisivi, personaggi da commedia dell’arte. Se non sappiamo chi è Garibaldi non è perché a scuola il professore non era abbastanza bravo o perché noi eravamo tonti. Non sappiamo chi è Garibaldi perché le uniche cose che abbiamo sentito di lui al di fuori della scuola erano la filastrocca “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba” o lo zio leghista che per darsi un tono borbottava il famoso “Garibaldi faceva meglio a stare a casa”.
Io amo studiare la storia, e mi trovo spesso a scontrarmi con chi mi pone l’odiosa domanda: ma a cosa serve? E io ogni volta mi trovo a dire che, forse, nel mondo del lavoro non sarà molto spendibile, ma la nostra identità non si esaurisce nel lavoro che facciamo. Studiare la storia serve a un sacco di cose: formare la persona, il cittadino, l’elettore. Serve a sapere chi siamo e a decidere, insieme, dove vogliamo andare. E poi anche a non fare la figura degli idioti in vacanza in Uzbekistan, ma questo è il meno.
Sono anche convinta (e prego il cielo di sbagliarmi) che se chiedessi a un passante a caso perché gli italiani ce l’abbiano tanto con i francesi, questo tirerebbe fuori i mondiali di calcio del 2006 o (Dio ce ne scampi) “adesso ridacci la nostra Gioconda”. Eppure, cercando il nostro “eroe nazionale”, avremmo un sacco di motivi per poter dire “Napoleone” senza timore. E invece noi odiamo i francesi perché i loro vini sono migliori dei nostri e ci sciogliamo d’amore per gli inglesi, inspiegabilmente, visto che al nostro paese hanno fatto del male ogni volta che hanno potuto.
(Consiglio il libro Il Golpe Inglese di Giovanni Fasanella, giornalista e ricercatore).
Mentre scrivo è il 16 marzo, che oltre a essere il titolo di una bella canzone di Achille Lauro è anche il giorno dopo la manifestazione per l’Europa organizzata da Michele Serra a Roma. Manifestazione che è stata rovinata dalle polemiche per il piano della Commissione Europea per il riarmo, con i pacifisti (o "pacifinti" come li ha chiamati Calenda) che o sono finanziati dal partito di Putin o vivono nel mondo degli unicorni (ogni riferimento a Elly Schlein è assolutamente intenzionale).
Non voglio entrare nel merito della questione “riarmo”, dico solo che la storia (l’inutilissima storia) qualcosa dovrebbe averci insegnato. Ad esempio, che il riarmo è un tipo di deterrenza che funziona e non solo durante la Guerra Fredda (chi mai attaccherebbe la Corea del Nord, che ha l’atomica?). Che accodarci a quello che ci sembra più grosso e cattivo nella speranza che combatta al posto nostro non ha funzionato con Hitler e non funzionerà con Trump. Che in Europa ci siamo fatti la guerra per secoli e abbiamo smesso solo quando ci siamo decisi a fondare l’Unione Europea.
E che nessuno stato imperialista nella storia, nessuno, si è mai fatto intenerire e ha mai risparmiato un nemico debole e vigliacco.

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