«Un destino simile è toccato a Napoli, ormai ridotta a parodia di se stessa, capitale degli eccessi alimentari, incatenata al luogo comune per cui sembra che l’unica cosa davvero importante da fare quando ci si trova in terra partenopea sia ingozzarsi»
Luca Sofri, direttore editoriale del Post, ha scritto nel suo blog che il cibo è forse l’unico settore culturale in cui il consumatore italiano “medio” è ancora in grado di distinguere un prodotto di qualità da uno industriale. Per gli altri (libri, musica, programmi televisivi) invece, questa sensibilità è saltata.Non sto dicendo, naturalmente, che il mercato alimentare non sia occupato in gran parte da prodotti di bassa qualità: ma dico che tra i consumatori – noi tutti – c’è una percezione dell’importanza della qualità, e che se compriamo i pomodori all’Esselunga invece che dal fruttivendolo rimasto in centro, è per ragioni pratiche ed economiche. Non perché ci siamo convinti che quei pomodori siano più buoni.
(La legge della domanda e dell’offerta, di Luca Sofri, Wittgenstein)
In altre parole, abbiamo tutti un palato sufficientemente allenato da sentire che il ragù della nonna (o del ristorante) è migliore di quello pronto, in vasetto, ma non abbiamo lo stesso buon gusto per apprezzare la qualità di Tiziano Terzani rispetto a libercoli di Gianluca Gotto.
Giusto ieri stavo preparando le lasagne alla bolognese con un buon ragù che il giorno prima avevo fatto sobbollire per non meno di quattro ore. Eh vabbè, c’erano 40 gradi, ma la mia idea di vacanza è fatta di vita lenta e di riferimenti un po’ vintage.
Mentre componevo i vari strati delle lasagne, cercavo di reprimere l’impulso di abbondare, di esagerare. Il ragù fatto in casa era buono, per carità, ma la riuscita del piatto dipende da un fragile equilibrio. Basta un attimo e ci si trova davanti a qualcosa di “godurioso”, sì, ma anche un po’ stucchevole, volgare, insomma, basta poco perché anche la lasagna faccia la fine del tiramisù.
Il tiramisù, o tiramesù, è una ricetta degli anni Sessanta inventata a Treviso (pare) da un tal pasticcere Roberto "Loly" Linguanotto, il quale voleva ricreare un dolce al cucchiaio simile a quelli asburgici, che aveva preparato durante gli anni di lavoro in Germania. La versione originale prevede un elegante equilibrio tra savoiardi, caffè e crema al mascarpone, il tutto ingentilito da una spolverata di cacao.
In altre parole, abbiamo tutti un palato sufficientemente allenato da sentire che il ragù della nonna (o del ristorante) è migliore di quello pronto, in vasetto, ma non abbiamo lo stesso buon gusto per apprezzare la qualità di Tiziano Terzani rispetto a libercoli di Gianluca Gotto.
Giusto ieri stavo preparando le lasagne alla bolognese con un buon ragù che il giorno prima avevo fatto sobbollire per non meno di quattro ore. Eh vabbè, c’erano 40 gradi, ma la mia idea di vacanza è fatta di vita lenta e di riferimenti un po’ vintage.
Mentre componevo i vari strati delle lasagne, cercavo di reprimere l’impulso di abbondare, di esagerare. Il ragù fatto in casa era buono, per carità, ma la riuscita del piatto dipende da un fragile equilibrio. Basta un attimo e ci si trova davanti a qualcosa di “godurioso”, sì, ma anche un po’ stucchevole, volgare, insomma, basta poco perché anche la lasagna faccia la fine del tiramisù.
Il tiramisù, o tiramesù, è una ricetta degli anni Sessanta inventata a Treviso (pare) da un tal pasticcere Roberto "Loly" Linguanotto, il quale voleva ricreare un dolce al cucchiaio simile a quelli asburgici, che aveva preparato durante gli anni di lavoro in Germania. La versione originale prevede un elegante equilibrio tra savoiardi, caffè e crema al mascarpone, il tutto ingentilito da una spolverata di cacao.
La ricetta è ben diversa dalle esagerazioni che stanno prendendo piede a Treviso (e in tante altre città), con montagne di crema lanciate sul piatto a mortificare un misero biscottino, e con la polvere di cacao sostituita da scaglie di cioccolato grosse come pepite.
In alcuni casi la crema viene scodellata brutalmente sul piatto addirittura con la cazzuola!
Da dove viene questo bisogno di strafare? La risposta sta tutta in una parola, o meglio, in un hashtag: #foodporn
Passeggiando per Firenze può capitare di imbattersi in una lunga, lunghissima fila di persone. La ragione di questo mansueto accodarsi è un locale molto famoso, All’antico vinaio, che da qualche anno a questa parte, a colpi di sponsorizzate e forte dei suoi 935 mila follower su Instagram, ha costruito un piccolo impero di ben 40 negozi nel mondo. All’antico vinaio è uno degli esempi più riusciti di come una buona presenza sui social e una campagna di marketing intelligente riescano a “rendere virale” un locale. Le persone in coda non vogliono, semplicemente, mangiare una focaccia; vogliono poter dire “ci sono stato anche io”, partecipare a un rito collettivo, arricchire la permanenza a Firenze con un elemento di cultura pop. La specialità della casa non è, infatti, la schiacciata farcita in sé, ma l’esperienza che questa regala: la possibilità di postare la foto della focaccia con il ripieno che straborda (in modo opportunamente fotogenico), come hanno già fatto migliaia di persone, con l’insegna del locale che fa capolino e la geolocalizzazione. Tra “fotografare la focaccia” e “fotografare la Venere del Botticelli” non c’è poi tanta differenza, se non che la focaccia la puoi trovare più o meno uguale nel locale a fianco, mentre la Venere del Botticelli… beh, quella no.
Come si concilia il food porn con la cultura alimentare di cui parla Sofri? Possibile che almeno gli italiani non si rendano conto di quanto sia assurdo tutto questo? Possibile che quell’insieme di strategie che conosciamo sotto il nome di “branding” riesca a ingannare persino i consumatori più esperti?
Da dove viene questo bisogno di strafare? La risposta sta tutta in una parola, o meglio, in un hashtag: #foodporn
Passeggiando per Firenze può capitare di imbattersi in una lunga, lunghissima fila di persone. La ragione di questo mansueto accodarsi è un locale molto famoso, All’antico vinaio, che da qualche anno a questa parte, a colpi di sponsorizzate e forte dei suoi 935 mila follower su Instagram, ha costruito un piccolo impero di ben 40 negozi nel mondo. All’antico vinaio è uno degli esempi più riusciti di come una buona presenza sui social e una campagna di marketing intelligente riescano a “rendere virale” un locale. Le persone in coda non vogliono, semplicemente, mangiare una focaccia; vogliono poter dire “ci sono stato anche io”, partecipare a un rito collettivo, arricchire la permanenza a Firenze con un elemento di cultura pop. La specialità della casa non è, infatti, la schiacciata farcita in sé, ma l’esperienza che questa regala: la possibilità di postare la foto della focaccia con il ripieno che straborda (in modo opportunamente fotogenico), come hanno già fatto migliaia di persone, con l’insegna del locale che fa capolino e la geolocalizzazione. Tra “fotografare la focaccia” e “fotografare la Venere del Botticelli” non c’è poi tanta differenza, se non che la focaccia la puoi trovare più o meno uguale nel locale a fianco, mentre la Venere del Botticelli… beh, quella no.
Come si concilia il food porn con la cultura alimentare di cui parla Sofri? Possibile che almeno gli italiani non si rendano conto di quanto sia assurdo tutto questo? Possibile che quell’insieme di strategie che conosciamo sotto il nome di “branding” riesca a ingannare persino i consumatori più esperti?
Se davvero il cibo rappresenta l’ultimo baluardo culturale della nazione, com’è possibile che un gelato palesemente industriale come quello di Grom sia riuscito a sfruttare lo slogan “il gelato come una volta” con tale leggerezza e ottenere un successo così clamoroso?
Per come la vedo io, il discorso di Sofri resta valido solo fintanto che gli italiani restano a casa propria. C’è una distinzione molto netta tra quello che gli italiani cercano nel cibo quando sono a casa, e quello che cercano quando fanno una gita fuori porta. Quando sono fuori casa, le persone hanno aspettative diverse: non vogliono semplicemente nutrirsi, vogliono cogliere l’essenza del luogo in cui si trovano, desiderano essere sbalzati fuori dalla loro ordinaria quotidianità. Per farlo, spesso si appellano a “simboli”: e in fin dei conti, cosa c’è di più simbolico del cibo?
La distanza tra simbolo e stereotipo, purtroppo, è molto sottile. L’impatto dei social media porta inevitabilmente a banalizzare la complessità di un luogo, riducendolo ai suoi attributi esteriori, cristallizzandolo in un’immagine. Non è una cosa completamente negativa, magari è stata proprio la foto di un prodotto alimentare a incuriosirci e a farci propendere per una destinazione piuttosto che per un’altra. Non so voi, ma io quando scelgo una meta, un’occhiata anche a cosa si mangia la do sempre. Però questo dovrebbe essere solo un punto di partenza, e soprattutto (per quanto ci si ostini a proclamare il contrario) questo dovrebbe convincerci che non è l'autenticità che stiamo cercando, ma un simbolo, un elemento caratteristico. Se per esempio ci mettessimo nei panni di un turista straniero che volesse conoscere la provincia di Venezia nella sua natura più autentica, di sicuro non andrebbe a mangiare “cicchetti” a Venezia. La maggioranza dei veneziani si è trasferita sulla terraferma e non basa la sua dieta quotidiana sui "cicchetti". Se invece ci accontentiamo di assaggiare le specialità del luogo (lo dice anche il nome: cose “non ordinarie”) allora sì che andare a mangiare dei “cicchetti” a Venezia ha senso: non sarà quello che i suoi abitanti realmente fanno ogni giorno, ma è quanto di più caratteristico e piacevole la città abbia da offrire. Lo stesso ovviamente vale quando ci spostiamo in una qualsiasi altra città italiana.
In una puntata del podcast Globo, dedicata ai viaggi, l’antropologo Marco Aime spiega che nell’Ottocento il turista del Grand Tour sapeva "a grandi linee" cosa aspettarsi dai luoghi che si apprestava a visitare, ma non li aveva mai visti. Aveva sentito parlare di Roma, di Napoli, di Venezia, aveva visto qualche quadro, ma non c’era l'abbondanza di immagini di cui disponiamo oggi. Quindi, il suo era un viaggio di scoperta. Oggi noi, con la televisione e soprattutto, con i social network, facciamo un tipo di viaggio diverso, cioè un viaggio di verifica. Andiamo a vedere se un luogo è davvero così, come l’abbiamo visto, come l’abbiamo preventivamente sognato.
Per come la vedo io, il discorso di Sofri resta valido solo fintanto che gli italiani restano a casa propria. C’è una distinzione molto netta tra quello che gli italiani cercano nel cibo quando sono a casa, e quello che cercano quando fanno una gita fuori porta. Quando sono fuori casa, le persone hanno aspettative diverse: non vogliono semplicemente nutrirsi, vogliono cogliere l’essenza del luogo in cui si trovano, desiderano essere sbalzati fuori dalla loro ordinaria quotidianità. Per farlo, spesso si appellano a “simboli”: e in fin dei conti, cosa c’è di più simbolico del cibo?
La distanza tra simbolo e stereotipo, purtroppo, è molto sottile. L’impatto dei social media porta inevitabilmente a banalizzare la complessità di un luogo, riducendolo ai suoi attributi esteriori, cristallizzandolo in un’immagine. Non è una cosa completamente negativa, magari è stata proprio la foto di un prodotto alimentare a incuriosirci e a farci propendere per una destinazione piuttosto che per un’altra. Non so voi, ma io quando scelgo una meta, un’occhiata anche a cosa si mangia la do sempre. Però questo dovrebbe essere solo un punto di partenza, e soprattutto (per quanto ci si ostini a proclamare il contrario) questo dovrebbe convincerci che non è l'autenticità che stiamo cercando, ma un simbolo, un elemento caratteristico. Se per esempio ci mettessimo nei panni di un turista straniero che volesse conoscere la provincia di Venezia nella sua natura più autentica, di sicuro non andrebbe a mangiare “cicchetti” a Venezia. La maggioranza dei veneziani si è trasferita sulla terraferma e non basa la sua dieta quotidiana sui "cicchetti". Se invece ci accontentiamo di assaggiare le specialità del luogo (lo dice anche il nome: cose “non ordinarie”) allora sì che andare a mangiare dei “cicchetti” a Venezia ha senso: non sarà quello che i suoi abitanti realmente fanno ogni giorno, ma è quanto di più caratteristico e piacevole la città abbia da offrire. Lo stesso ovviamente vale quando ci spostiamo in una qualsiasi altra città italiana.
In una puntata del podcast Globo, dedicata ai viaggi, l’antropologo Marco Aime spiega che nell’Ottocento il turista del Grand Tour sapeva "a grandi linee" cosa aspettarsi dai luoghi che si apprestava a visitare, ma non li aveva mai visti. Aveva sentito parlare di Roma, di Napoli, di Venezia, aveva visto qualche quadro, ma non c’era l'abbondanza di immagini di cui disponiamo oggi. Quindi, il suo era un viaggio di scoperta. Oggi noi, con la televisione e soprattutto, con i social network, facciamo un tipo di viaggio diverso, cioè un viaggio di verifica. Andiamo a vedere se un luogo è davvero così, come l’abbiamo visto, come l’abbiamo preventivamente sognato.
Il turista che va a Firenze vuole vedere se la focaccia dell’Antico vinaio è davvero così, come l’ha vista su Instagram, non gli interessa se nel locale di fianco la fanno uguale. Sarà anche uguale ma ai suoi occhi è una brutta copia. Lui cerca il simbolo, l’elemento caratteristico, e vuole allo stesso tempo partecipare al rito collettivo che l'ha ispirato sui social.
Nell’articolo "Catania è diventata una città-meme" Lara Abrahams parla di come la sua città, un tempo così elegante e raffinata, stia soffrendo a causa di una narrazione turistica che ne appiattisce i tratti e la inchioda al cliché della “città da mangiare”:
Cosa intendo per cucina catanese? Qualche anno fa avrei detto pasta alla norma, cannoli, cassate, granita, involtini. Adesso sembra essersi trasformata in uno strano corredo di eccessi al gusto di pistacchio, ragù e ricotta. Le cene sono state sostituite da inconfondibili aperitivi “rinforzati” e i pranzi hanno preso lo sfarzo di essere immancabilmente completi di primo, secondo e contorno. Questo è il teatro – rigorosamente fatto sui social – delle nostre trattorie, gastronomie, pizzerie, bar. E se posso aggiungere, sono trattorie, gastronomie, pizzerie e bar dove io personalmente non ero mai andata.
(Catania è diventata una città-meme, di Lara Abrahams, Scomodo)
Un destino simile è toccato a Napoli, ormai ridotta a parodia di se stessa, capitale degli eccessi alimentari, incatenata al luogo comune per cui sembra che l’unica cosa davvero importante da fare quando ci si trova in terra partenopea sia ingozzarsi. A me me piace ‘a nutella.
La degradazione culturale di cui parla Sofri è inevitabilmente progressiva. Se Napoli è conosciuta più per la pizza che per la sua storia, non è solo per colpa dell’immaginario preconfezionato dai social network: è perché la pizza è un concetto “facile da capire”, molto più facile della sua storia, della sua architettura, delle sue contraddizioni.
Purtroppo temo che la considerazione di Sofri varrà ancora per poco tempo e poi cadrà anche quest’ultimo baluardo, sotto i colpi della cialtroneria e degli eccessi che sono alla base di qualsiasi forma di ignoranza.
Nell’articolo "Catania è diventata una città-meme" Lara Abrahams parla di come la sua città, un tempo così elegante e raffinata, stia soffrendo a causa di una narrazione turistica che ne appiattisce i tratti e la inchioda al cliché della “città da mangiare”:
Cosa intendo per cucina catanese? Qualche anno fa avrei detto pasta alla norma, cannoli, cassate, granita, involtini. Adesso sembra essersi trasformata in uno strano corredo di eccessi al gusto di pistacchio, ragù e ricotta. Le cene sono state sostituite da inconfondibili aperitivi “rinforzati” e i pranzi hanno preso lo sfarzo di essere immancabilmente completi di primo, secondo e contorno. Questo è il teatro – rigorosamente fatto sui social – delle nostre trattorie, gastronomie, pizzerie, bar. E se posso aggiungere, sono trattorie, gastronomie, pizzerie e bar dove io personalmente non ero mai andata.
(Catania è diventata una città-meme, di Lara Abrahams, Scomodo)
Un destino simile è toccato a Napoli, ormai ridotta a parodia di se stessa, capitale degli eccessi alimentari, incatenata al luogo comune per cui sembra che l’unica cosa davvero importante da fare quando ci si trova in terra partenopea sia ingozzarsi. A me me piace ‘a nutella.
La degradazione culturale di cui parla Sofri è inevitabilmente progressiva. Se Napoli è conosciuta più per la pizza che per la sua storia, non è solo per colpa dell’immaginario preconfezionato dai social network: è perché la pizza è un concetto “facile da capire”, molto più facile della sua storia, della sua architettura, delle sue contraddizioni.
Purtroppo temo che la considerazione di Sofri varrà ancora per poco tempo e poi cadrà anche quest’ultimo baluardo, sotto i colpi della cialtroneria e degli eccessi che sono alla base di qualsiasi forma di ignoranza.
E quando la cialtroneria prende il sopravvento, allora non c’è più nessun limite, soprattutto nello street food dove tutto è più sbracato: le lasagne diventano “lasagna burgers” o (Dio li perdoni) cubi di lasagna impalati su uno stecco, panati e fritti.
Badate, non si tratta di snobismo rispetto a rivisitazioni popolari, "di strada" ed economiche. La medesima tendenza a esagerare e a passare la misura si nota anche sul fronte opposto, da parte di consumatori ben più schizzinosi, quelli ossessionati dal prodotto naturale e “bio”, costi quel che costi.
Marco Lo Russo, giovane vignaiolo della zona di Barbaresco (nelle Langhe), ha raccontato: ”Ormai la gente si aspetta che non usi neanche rame e zolfo sulle viti per evitare le malattie e che faccia fermentare l’uva gettandola in un tino in mezzo alle vigne, lasciando che la natura faccia il suo corso”.
Badate, non si tratta di snobismo rispetto a rivisitazioni popolari, "di strada" ed economiche. La medesima tendenza a esagerare e a passare la misura si nota anche sul fronte opposto, da parte di consumatori ben più schizzinosi, quelli ossessionati dal prodotto naturale e “bio”, costi quel che costi.
Marco Lo Russo, giovane vignaiolo della zona di Barbaresco (nelle Langhe), ha raccontato: ”Ormai la gente si aspetta che non usi neanche rame e zolfo sulle viti per evitare le malattie e che faccia fermentare l’uva gettandola in un tino in mezzo alle vigne, lasciando che la natura faccia il suo corso”.
Negli ultimi anni sempre più influencer del mondo del vino hanno avviato una guerra nei confronti di tutto ciò che non è “naturale”, con la convinzione che i grandi vini nascano quando il vignaiolo si riduce a spettatore. In nome di questo vengono accettate bottiglie tecnicamente difettose, maleodoranti e addirittura malsane. Però vuoi mettere: è naturale!
Dice ancora Marco Lo Russo: ”se proprio vogliamo attenerci a quanto ci sussurra la natura, l’unica aspirazione naturale del vino è quella di diventare aceto. Già nel momento in cui l’uomo interviene per far in modo che questo non accada, contraddice il concetto stesso di vino "naturale" per come lo si intende adesso”.
In Italia non esiste alcun disciplinare per produrre vini naturali e tanto meno una certificazione. Esistono solo “aria fritta” e tante chiacchiere, vera e propria specialità nazionale.
Il mio amico Daniele è appassionato di vino e innamorato della zona delle Langhe dove, dice, “oltre alla cultura agronomica, si respirano anche cultura storica e letteraria”. È stato lui a raccogliere la testimonianza del vignaiolo delle Langhe, ed è lui che in una frase sa andare perfettamente al nocciolo della questione: “chi sa solo di vino, non sa niente di vino”.
Dice ancora Marco Lo Russo: ”se proprio vogliamo attenerci a quanto ci sussurra la natura, l’unica aspirazione naturale del vino è quella di diventare aceto. Già nel momento in cui l’uomo interviene per far in modo che questo non accada, contraddice il concetto stesso di vino "naturale" per come lo si intende adesso”.
In Italia non esiste alcun disciplinare per produrre vini naturali e tanto meno una certificazione. Esistono solo “aria fritta” e tante chiacchiere, vera e propria specialità nazionale.
Il mio amico Daniele è appassionato di vino e innamorato della zona delle Langhe dove, dice, “oltre alla cultura agronomica, si respirano anche cultura storica e letteraria”. È stato lui a raccogliere la testimonianza del vignaiolo delle Langhe, ed è lui che in una frase sa andare perfettamente al nocciolo della questione: “chi sa solo di vino, non sa niente di vino”.

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