
«Ora che i ministri israeliani Smotrich e Ben-Gvir ci fanno rimpiangere Erode, ora che Trump blatera di una “Gaza Riviera” in cui erigere resort di extralusso, ora che ai ricchi viene perdonato tutto, anche essere analfabeti e prepotenti, ora che la realtà supera la fantasia e ci sono davvero migliaia di poveri Cristi in Palestina, non abbiamo più tempo di pensare alla morale. Siamo troppo impegnati a comprare i regali»
C’era una volta il Natale, con i suoi riti, le sue cadenze e la sua sdolcinata pateticità. C'erano i film di Natale, che ci ricordavano che essere dei ricconi stronzi aveva delle conseguenze (Una poltrona per due), che fare del male al prossimo ti risolve i problemi ma ti manda all’inferno (Parenti serpenti), che i soldi non danno la felicità ma l'affetto della famiglia sì (Il piccolo Lord). C’erano le note di Do they know it’s Christmas? a ricordarti che le carestie non vanno in vacanza.
Ora è un po’ diverso: nelle vetrine dei negozi e nelle case il classico presepe è stato sostituito dal “villaggio d’inverno”, un nonluogo dove vediamo i trenini sferragliare, i bambini tirare le palle di neve o slittare sui pattini. Ci sono le giostre, il negozio di dolciumi, l’ufficio postale. Ci sono le panchine e gli innamorati, lo Schiaccianoci e le mongolfiere. È un tempo nostalgico, ma moderno, esotico ma occidentale. È una versione edulcorata del presepe: sono tutti felici, spensierati, ma non se ne conosce il motivo, perché al contrario del classico presepe questo paesaggio è privo di morale.
Quella del presepe era una bella storia, che insegnava la carità verso i poveri e la gratitudine per ciò che si ha. Questa favola cercava di spiegare l'inspiegabile: che un essere onnipotente avesse scelto di nascere non in una reggia, coperto d’oro e di onori, ma in una grotta, come un profugo. La raccontavamo ai bambini, perché i bambini non leggevano i giornali e quindi non potevano sapere che a poca distanza da loro c’erano davvero delle persone così, che morivano di fame e di freddo. È per questo che dicevamo loro che “a Natale siamo tutti più buoni”, perché almeno una volta l'anno bisognava fare lo sforzo di pensare anche a loro, a quei poveri disgraziati, intendo. Lo facevamo malvolentieri, sbuffando perché i pranzi di Natale erano noiosi, in chiesa faceva freddo, perché avevamo sonno, perché volevamo correre a casa ad aprire i regali. Era uno sforzo ma lo facevamo.
Ora non lo facciamo più, perché ci pensiamo così illuminati e intelligenti da non avere più bisogno di queste favolette, e perché andare al catechismo è una cosa da sfigati. Posso essere anche d'accordo, ma quindi cosa si festeggia, ora, a Natale? Se non crediamo più a quella favoletta, come giustifichiamo tutto questo entusiasmo, le vacanze, Mariah Carey, le decorazioni e i regali?
Una volta una collega mi ha detto: «io non credo nel Natale, credo solo nei regali». Lei intendeva fare una battuta, si capisce, ma a me è rimasto l’amaro in bocca, perché in fondo è davvero, semplicemente, miseramente così.
Compra! È questo l’unico imperativo morale dell’occidente consumistico in cui viviamo.
Sii buono: compra un regalo anche alla vicina che non sopporti. Comprale una cianfrusaglia inutile da quattro spicci, riempi il mondo di plastica e ipocrisia.
Karl Marx diceva, forse a ragione, che la religione è l’oppio dei popoli. Sarebbe logico pensare che, avendo tolto la religione, l’uomo si sia risvegliato dal torpore. E invece senza accorgercene siamo passati dal cristianesimo al consumismo. Anziché andare in chiesa a onorare le feste, andiamo al centro commerciale, con buona pace di Marx che abbiamo scomodato solo per dare un tocco intellettuale alla nostra povertà spirituale.
«Si va al Mall of America con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori d'azzardo a Las Vegas, i bambini a Disneyland» ha scritto Michael Crosbie nella rivista Progressive Architecture. Parlava del più grande centro commerciale degli Stati Uniti, ma parla anche di noi, che siamo sempre pronti ad accogliere qualsiasi americanata, basti pensare ai costumi da strega sexy per Halloween o alla frenesia del Black Friday. Io personalmente trovo che questa nostra esterofilia sia tremendamente grezza e provinciale, e che quindi ottenga l’effetto opposto a quello desiderato, ma come dico sempre ho la sfortuna di essere una vecchia europea snob.
Scopro da altre colleghe che le tradizioni evolvono e che ora dall’America arriva pure l’Elf on the Shelf, un elfo inviato da Babbo Natale allo scopo di verificare che i bambini siano buoni e meritino davvero di ricevere i regali. Apprendo da Vanity Fair che solo gli adulti sono autorizzati a toccare l’elfo, per non rovinare la magia, e che durante il giorno quest’ultimo se ne sta appollaiato su una mensola, mentre di notte combina delle marachelle che il giorno dopo i bambini dovranno aiutare a sistemare.
Ah, apprendo anche che si tratta di un marchio registrato (chi l’avrebbe mai detto!).
Ora, se la morale del Gesù nato povero nella mangiatoia col bue e l’asinello aveva una certa insindacabile coerenza e un messaggio sociale chiaro e definito (non a caso, quella storiella ci è piaciuta per qualcosa come duemila anni), quella del “nuovo” Natale, con l’elfo sulla mensola, mi risulta un po’ più oscura. Perchè mai delle mamme stanche dopo otto ore di lavoro, dovrebbero autoinfliggersi la tortura di rovesciare della farina per terra, impiastricciare lo specchio col rossetto o riempire la casa di post-it? Questo non ci parla forse del senso di colpa dei genitori che, costretti a misurarsi con una società che non è fatta a loro misura, tentano di compensare il poco tempo a disposizione con quella chimera che è il tempo di qualità? D’altronde si sa, i bambini (come gli adulti) ormai hanno di tutto e i regali non stupiscono più: ora offriamo loro delle esperienze.
Con quali principi stiamo crescendo gli adulti di domani, se non osiamo distrarli nemmeno per un’ora da questo mondo incantato fatto di benessere e di regali?
A gennaio 2025 l’Atlantic ha pubblicato The Anti-Social Century, un articolo molto interessante sul progressivo sfaldamento delle relazioni interpersonali, a seguito di invenzioni come la televisione e l’automobile, che hanno ridotto gli spazi di interazione con gli altri, e sulle conseguenze che l’isolamento e la solitudine (spesso autoinflitti) hanno avuto a livello sociale. C’è un passaggio molto interessante in cui si dice che le relazioni sociali con persone estranee alla nostra cerchia più ristretta, ad esempio quelle con le persone del nostro quartiere o del paese di origine, sono una palestra per allenare la tolleranza e, per estensione, la democrazia (e che quindi imputa l’aggressiva faziosità della politica attuale alla loro riduzione).
Immaginate che durante una riunione tra genitori e insegnanti, uno dei genitori non sia d'accordo con voi su alcune misure correttive da prendere. Online, potreste liquidarlo come un avversario politico che merita il vostro disprezzo. Ma in una palestra scolastica piena di vicini, vi mordete la lingua. Nel corso dell'anno, scoprite che le vostre figlie frequentano la stessa scuola di danza. All'uscita, vi raccontate degli aneddoti sulla cura dei parenti anziani. Sebbene le vostre differenze non scompaiano, si fondono in una pacifica convivenza. E quando vi iscrivete a un comitato per redigere una dichiarazione sull’inclusività per la scuola, scoprite di poter accogliere reciprocamente le opinioni contrastanti.
The Anti-Social Century, The Atlantic, di Derek Thompson, 8 gennaio 2025, la traduzione è mia.
Quando ho letto questo passaggio mi è tornato in mente quanto avevo scritto più o meno un anno fa, quando avevo parlato delle domande inopportune che molti sostengono di ricevere soprattutto durante le feste di Natale. Certo è che quanto dice l’articolo è vero, e cioè che quella capacità di mordersi la lingua di fronte a una domanda inopportuna dello zio o a un commento sarcastico della mamma, erano una scuola di vita. Potrei sbagliarmi, ma i grandi cenoni di Natale che riunivano allo stesso tavolo tutta la famiglia, non si fanno più. Forse gli ultimi a tenerci erano i nonni, ma purtroppo, si sa, i nonni muoiono, e con loro le vecchie tradizioni. Venuto a mancare questo ultimo incentivo, ci rifiutiamo di partecipare a questi riti collettivi, anche perché più passa il tempo, meno siamo disposti ad accettare opinioni diverse dalla nostra sul ragù vegano o sulla scelta di avere o non avere dei figli. Se togliamo il filtro della nostalgia, ci accorgiamo che è vero, quei pranzi di Natale non erano poi così belli, ma almeno ci costringevano a usare la diplomazia, ad argomentare le nostre opinioni, a fregarcene dei giudizi. Ora senza quella palestra siamo tutti chiusi nelle nostre bolle.
Questo articolo non vuole essere la solita lagna in stile “dove andremo a finire, signora mia”, ma vuole comunque sollevare qualche dubbio sul nostro agire, porre delle domande su cosa stiamo facendo e perché.
Credo che di questi tempi ci sarebbe particolarmente bisogno di quella favoletta del bambino nato in una grotta. Ora che i ministri israeliani Smotrich e Ben-Gvir ci fanno rimpiangere Erode, ora che Trump blatera di una “Gaza Riviera” in cui erigere resort di extralusso, ora che ai ricchi viene perdonato tutto, anche essere analfabeti e prepotenti, ora che la realtà supera la fantasia e ci sono davvero migliaia di poveri Cristi in Palestina, non abbiamo più tempo di pensare alla morale. Siamo troppo impegnati a comprare i regali.
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