«Da progressista penso che sarebbe bello, ogni tanto, potersi rilassare e risolvere qualsiasi questione con sconcertante banalità»
Nelle ultime settimane sono stata colta da un sacco di domande esistenziali e il filo conduttore è sempre lo stesso: quanto è difficile abbracciare la complessità delle cose? Non doversi mai accontentare delle semplificazioni (suvvia, non vorrai dare risposte semplici a problemi complessi!) Rispondere alle provocazioni populiste, senza scendere al loro livello. Cercare di ribattere in modo articolato, correndo il rischio di risultare incomprensibili ai più. Analizzare caso per caso con pertinenza, rischiando di essere accusati di incoerenza. Fare delle proposte che rispondano alle esigenze della maggioranza della popolazione, senza per questo lasciare indietro le minoranze, altrimenti chi mai si occuperà di loro? Proprio a questo proposito, dopo aver scritto l’articolo Di elezioni americane e di famiglia mi sono sentita su un campo di battaglia, in cui il demone di Eugenia Roccella si contendeva la mia anima con l’angelo di Michela Murgia.
Overthinking acuto, si capisce.
Abbracciare la complessità delle cose è faticoso, perché implica mettere costantemente in discussione non solo le idee degli avversari, ma anche le proprie. Soprattutto le proprie. È una fatica che si fa soprattutto a sinistra, da lì la condanna alle divisioni interne, alle mille correnti. Ezio Mauro nel suo libro La dannazione rintraccia le radici di questo fenomeno già nella Scissione di Livorno tra Partito Socialista e Partito Comunista, nel 1921.
A destra la discussione interna non esiste: si fa quel che dice il capo, giusto o sbagliato che sia. Discorso chiuso. Negli anni gli elettori hanno introiettato un “doppio standard”, per cui l’incoerenza a destra è tollerata, a sinistra no. Scrive a questo proposito il direttore del Post Luca Sofri:
Oggi, dopo le elezioni liguri, ci sono commenti stupiti dell’apparente anomalia di un centrosinistra incapace di vincere persino in una regione il cui presidente di centrodestra è stato arrestato e si è dimesso per quello. Ed è considerato da tutti piuttosto eccezionale che una maggioranza al governo da due anni, senza successi da vantare e con diversi incidenti di percorso, non solo non ne paghi l’abituale prezzo ma invece continui ad avere estesi consensi, e a vincere elezioni regionali una dopo l’altra.
Le destre, insomma, vincono malgrado tutto, malgrado qualunque cosa facciano: malgrado le condizioni meno favorevoli, malgrado i loro stessi fallimenti e inadeguatezze. [...]
Sono decenni in cui votiamo “contro” qualcuno e non per qualcuno, questo lo si è detto in abbondanza. E sono decenni in cui gli elettori – tutti noi – hanno introiettato un doppio standard di giudizio: ai candidati e ai partiti progressisti, e ai loro sostenitori, sono richieste qualità morali, intellettuali, di competenza corrispondenti al modo in cui questi si sono raccontati e tuttora si raccontano; agli altri, che questo racconto di sé se lo sono sempre più risparmiato, la mancanza di queste qualità è molto più perdonata.
Da progressista penso che sarebbe bello, ogni tanto, potersi rilassare e risolvere qualsiasi questione con sconcertante banalità. Ad esempio, come fa brillantemente notare il mio amico Roberto, l’intera visione politica della Lega si può riassumere in tre semplici parole, tre di numero: “via-i-ne*ri”. Perdonate l’espressione, ma è proprio quello che intendono. “In Italia il lavoro va male? Via i ne*ri”. “La sanità è pubblica solo sulla carta? Via i ne*ri”. “La scuola è in crisi? Via i ne*ri”.
In occasione della presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, nella settimana del 25 novembre, Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, in quota Lega, ha affermato che:
Abbiamo di fronte due strade, una concreta, ispirata ai valori costituzionali e un'altra ideologica. La visione ideologica è quella che vorrebbe risolvere la questione femminile lottando contro il patriarcato. Massimo Cacciari esagera quando dice che il patriarcato è morto 200 anni fa, ma certamente il patriarcato come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975 che ha sostituito alla famiglia fondata sulla gerarchia, la famiglia fondata sull'eguaglianza. Ci sono invece residui di maschilismo, diciamo di machismo, che vanno combattuti.
Mi stavo già illudendo che per una volta ci venisse risparmiata la “regola delle tre parole” ma Valditara è tornato prontamente in sé e ha aggiunto:
Non si può far finta di non vedere che l'incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e devianza in qualche modo discendenti dalla immigrazione illegale.
Il ministro qui evade la questione: è vero che il patriarcato, come “istituto giuridico” è finito nel 1975, ma come “fenomeno culturale” è tutt’altro che superato. La scelta linguistica di Valditara, quando parla di “residui di maschilismo, diciamo di machismo” è essa stessa ideologica. Intende “patriarcato”, ma non lo può dire.
Però, proprio per rispetto della complessità di cui parlavo prima, è doveroso chiedersi se il patriarcato sia diventato davvero l’unica spiegazione per tutti i femminicidi, a partire da quello di Giulia Cecchettin. È vero, il patriarcato è ovunque intorno a noi. Lo troviamo nei giornali, che riportano sistematicamente il punto di vista dell’assassino (“L’ho uccisa perché l’amavo!”). Lo riscontriamo quotidianamente nella superficialità e nell’atteggiamento accusatorio con cui le forze dell’ordine si approcciano alle vittime di stupro e stalking. Senza arrivare alla violenza fisica, ce l’abbiamo davanti agli occhi quando in televisione passano Temptation Island o quando il capo ci guarda lavorare con lo stesso sguardo ammirato che ha quando guarda i bambini fare i disegnetti. “Brave …e belle!“
Il patriarcato è ovunque ma non può essere l’unica spiegazione. Non può diventare la nostra “regola delle tre parole”. Sarebbe bello che lo fosse. Sarebbe comodo.
È evidente che la società contemporanea sta lentamente scivolando verso il materialismo più sfrenato. Le due grandi narrazioni (Cristianesimo e Marxismo) che fino a pochi decenni fa fungevano da argine, indicando nel sacrificio dell’uno il bene per la comunità, sono state spazzate via. Alla luce di questo, dovremmo chiederci se a spingere Turetta sia stata unicamente la violenza di genere o se possa aver avuto un ruolo anche la sempre crescente incapacità di sopportare un rifiuto. La figura dell'assassino sembra avere poco da spartire con quella del maschio alpha, e ricorda più quella di un bambino piagnucolone che se non può avere il giocattolo che desidera, spacca tutto. E d’altronde stiamo insegnando questo alle nuove generazioni: che se fai il bravo allora puoi avere tutto ciò che desideri.
L’altro giorno mi stavo aggirando in un negozio di articoli casalinghi e mi sono resa conto che ormai il Natale è diventato una festa assolutamente laica. Quello che è nato come messaggio potente, che una divinità abbia scelto di nascere in assoluta povertà, da profugo, si è trasformata nel suo contrario, nella celebrazione dell’opulenza. E infatti la grotta, il bue e l'asinello non sono più alle viste: al loro posto schiere di elfi (trasposizione fiabesca degli operai cinesi), Babbi Natale e laicissimi alberelli attentano anche alle tasche più ostinate. Ci sentiamo in dovere di fare regali a tutti, familiari, colleghi, compagni di palestra. A quelli simpatici come a quelli antipatici (a cui rifileremo una carabattola da due soldi). Il non comprare niente è diventata una cosa di cui vergognarsi. I regali a Natale ci sono sempre stati, ma almeno si faceva il tentativo (anche solo per apparenza) di ricordare il motivo per cui si festeggia.
Viviamo nella “società dei consumatori", come la definisce Zygmunt Bauman, dove le persone si approcciano in termini consumistici anche ai rapporti umani. La felicità è subordinata al possesso. Ed ecco che per un “ragazzo perbene” diventa inconcepibile che i suoi sforzi, il suo essere bravo, onesto e innamorato, non siano sufficienti a garantirgli “il regalo”, cioè l'amore della sua ragazza. A questo si aggiunga l’incapacità di affrontare le frustrazioni dalle quali i ragazzi sono sempre stati “protetti”. Lo si dice spesso: la scuola è esautorata. Non si boccia, non si premia. Come dice la mia amica Irene “l'insegnante è percepito come uno sfigato in camicia e pullover démodé con uno stipendio da fame. La letteratura, l’arte, la musica? Sarebbero salvifiche, se solo venissero insegnate”. Pensiamo alle opere liriche, simbolo dell'italianità nel mondo, che mettono in scena (e in questo modo esorcizzano) passioni brucianti e che ormai sono appannaggio di pochi privilegiati che possono permettersi l’abbonamento a teatro.
Di fronte a un caso come quello di Turetta dovremmo chiederci se il movente possa davvero esaurirsi “solo” nella cultura del patriarcato, o se possa aver inciso anche il modello educativo, il fatto di non aver mai imparato che nella vita non si può avere tutto ciò che si vuole. Farlo significa aggiungere un nuovo pezzettino di complessità, non accontentarsi di una spiegazione univoca, per quanto convincente. La realtà è sempre più complessa di quanto sembri.
Detto questo, l'ho spiegato all’inizio, si prova un senso di fatica e di grande sconforto. Si ha l'impressione che per quanto ci sforziamo, non sia mai abbastanza. Arrivare a una formulazione così solida e coerente della teoria sul patriarcato non è stato semplice. Ci è voluta un’intellettuale vera, come Murgia, a dare un nome a qualcosa che avevamo sotto gli occhi e non riuscivamo a vedere. Dare un nome alle cose significa farle esistere. Di questo nome, di questa parola, “patriarcato” le donne erano appena riuscite a fare uno slogan, una bandiera, un movimento. Erano riuscite a farla pronunciare persino a Valditara, anche se solo per negarla.
Eppure ho l'impressione, amara e malinconica, che l'incantesimo evocato da questa parola stia già svanendo: un po' per la naturale tendenza delle esplosioni mediatiche a sgonfiarsi, un po' per una certa indisponibilità delle promotrici a passare dalla fase della lotta a quella, necessaria, della conciliazione.
Che fare? Tornare alla posizione di partenza, come nel gioco dell’oca? Assolutamente no: abbracciare la complessità non significa lavorare a compartimenti stagni ma mescolare, aggiungere, arricchire. Per sopportare questa pena non ci resta che ripetere come un mantra questa bella frase di Khalil Gibran: amare la vita attraverso la fatica è penetrarne il segreto più profondo.

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